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A giocar con gli insiemi

Intervista a Elena Turetti e Luana Tomasi
A cura di Costanza Faravelli

Quest’intervista riguarda un gioco. Uno di quei giochi senza limiti d’età, rivolto a tutti. Uno di quei giochi da prendere sul serio, perché fa divertire e fa pensare. Uno di quei giochi da fare per conoscersi meglio.

Tuttavia, invece di basarsi su certezze e informazioni date per scontate, questo gioco è come un terremoto: domanda, si infiltra nelle nostre convinzioni, mette in dubbio, porta scompiglio e lascia a bocca aperta. Sorprende. Smonta, per poi ricostruire. Disegna linee e traccia confini al solo scopo di attraversarli. Chiama in causa singoli individui, le loro relazioni e appartenenze e mostra loro come sia possibile dire chi si è senza definirsi una volta per tutte. 

Quest’intervista è rivolta a due persone, Elena e Luana, che su questo gioco, che realizzano e osservano, offrono due punti di vista in grado di fondersi e integrarsi. Perché uno sguardo solo non può aspirare a cogliere il complesso: un gioco che rifiuta etichette, insegue sfumature e si nutre di sfaccettature non può essere raccontato da una voce sola. 

Quest’intervista riguarda un gioco. Un gioco sugli insiemi di cui potremmo fare parte. Un gioco sulla complessità che ci appartiene. Un gioco di società in tutto e per tutto. 

In che cosa consiste il vostro laboratorio e da chi è composto
il pubblico cui di solito si rivolge?

Più che un vero e proprio laboratorio è una forma di avvicinamento al gruppo, utile a conoscere il gruppo classe o l’insieme di ragazzi che ci troviamo di fronte. L’abbiamo realizzato su gruppi di età diversa. Cambiano le domande, cambiano i modi, ma non l’efficacia. È un’attività molto utile a riconoscere quali sono le dinamiche di relazione più frequenti, quali sono le risorse che il gruppo usa e quelle che non usa, qual è il potenziale di quel gruppo in termini di capacità di scambio, di dialogo, di lavoro insieme. Qual è il potenziale del gruppo e qual è il potenziale del singolo. Un gruppo che quotidianamente si incontra tende a sviluppare dei meccanismi di relazione ripetitivi nel tempo, una persona continuamente vista come il secchione della classe tenderà a rintanarsi in quel ruolo, l’opposizione tra due soggetti che funziona tende a essere riprodotta ripetutamente dai due soggetti impegnati nella sfida, annullando altre possibilità.

Il lavoro inizia con una dichiarazione: noi non vi conosciamo, non sappiamo chi siete, non sappiamo nulla della vostra classe; vorremmo scoprire qualcosa. 

Facciamo un gioco insieme?

  • Tracciamo una linea, bianca di gesso sul pavimento del cortile o colorata con il nastro adesivo sul pavimento della classe. La classe viene divisa arbitrariamente in due gruppi di egual numero, uno a destra e uno a sinistra della linea.
  • Ogni domanda muove un dubbio nel bambino o adulto cui si rivolge: appartengo o non appartengo al gruppo di coloro che…?
  • Il gioco comincia con domande riferite a caratteristiche oggettive, evidenti per tutti, non confutabili, per poi piano piano aumentare il grado di soggettività richiesto nella risposta e quindi anche lo sforzo di pensiero e di introspezione.
  • A ogni domanda ciascun membro del gruppo risponde dichiarando la sua appartenenza avvicinandosi alla riga centrale. A titolo esemplificativo:

chi di voi ha una maglietta gialla? 
chi di voi ha gli occhi azzurri? 
chi di voi ha 7 anni? 
chi di voi ha un fratello più piccolo?
chi di voi ama dormire?
chi di voi ama giocare con le macchinine?
chi di voi dorme da solo?
chi di voi detesta allacciarsi le scarpe?
chi di voi è caduto dalla bicicletta negli ultimi due giorni?
chi di voi preferisce Jerry a Tom?
chi di voi vorrebbe raggiungere l’isola del tesoro?
chi di voi mastica a bocca aperta?
chi di voi desidera che la scuola non finisca?
chi di voi sogna di diventare un grande campione?
chi di voi rincorre le formiche?
chi di voi ha un amico del cuore?
chi di voi cerca l’anima gemella?
chi di voi pesca?
chi di voi ama correre?
chi di voi ama la musica Rap?
chi di voi ha fame in questo momento?
chi di voi ama disegnare?
chi di voi vorrebbe prendere a calci il compagno di banco?
chi di voi ha voglia di cioccolato?
chi di voi si è arrabbiato con la mamma ieri?

  • L’educatore ha la possibilità di porre domande molto diverse tra loro, molto precise o molto vaghe, molto immediate o che richiedono che ci si pensi un po’ su, più direttamente connesse alla sfera intima, legate alla vita scolastica o alla vita fuori dalla scuola, alla famiglia, al contesto sociale del bambino o ragazzo; domande strettamente connesse a luoghi comuni e pregiudizi.
  • A ogni domanda corrisponde un gruppo diverso, così che il gruppo iniziale è rimesso costantemente in dubbio: appariranno gruppi mai vista prima, inediti rispetto al gruppo d’origine. Il gioco deve essere abbastanza lungo perché tutti si abituino e realizzino la dinamica di scomposizione e ricomposizione del gruppo.
  • Giocata la partita, ci si può anche riguardare e, se si opera in due, la seconda persona può fotografare o filmare in itinere ogni nuovo gruppo che è venuto a formarsi.
  • Nessuna delle risposte categorizza i soggetti coinvolti: il numero di domande e le diverse declinazioni delle stesse evitano la costruzione di una idea fissa di sé. Più le domande attivano il gruppo e fanno nascere dubbi e perplessità, fino a far dichiarare l’impossibilità di scegliere su due piedi, più il gioco scava nel potenziale del gruppo.

L’utilizzo degli insiemi è un modo per creare confusione e generare risposte creative, è un’officina di relazioni, di pensieri e di dubbi, quelli che un secondo prima ti lasciano senza parole, ma che il secondo dopo illuminano il cammino di nuove consapevolezze. 

Capita che ci si ritrovi nel gruppo con quel bambino che fino a quel momento si percepiva come completamente diverso e con cui, per questo, non era stato condiviso del tempo: alcuni bambini si trovano molto distanti per alcuni versi e vicinissimi per altri, e tutto diventa nutrimento per le relazioni. L’insegnante, che era abituata ad associare quel bambino a quella connotazione e improvvisamente scopre nuove caratteristiche di quel bambino… questo è nutrimento in grado di scalfire il pregiudizio. L’insegnante di sostegno, che pensava di lavorare su delle carenze ma scopre che il bisogno educativo è un altro… questo è nutrimento per ridiscutere le risorse disponibili.

Qual è il motivo principale per cui, secondo i vostri
personali punti di vista e le vostre esperienze, trovate
questo laboratorio efficace?

Lo troviamo efficace per due ordini di motivi. 1) Innanzitutto, perché parte come un gioco quindi si giova della dinamica di azione e reazione che un gioco può innescare. Tutti partecipano, tutti ci stanno. Sta all’educare dare profondità alle domande e, quindi, spessore alle risposte, senza mai perdere di vista la linea centrale, il gioco e i suoi tempi. 2) Il secondo motivo è che produce degli effetti plurimi: il gruppo viene messo in discussione e ciò che ne esce serve a noi educatori o, nel caso in cui avvenga in una scuola, serve all’insegnante che si è troppo affezionato a un’idea di classe; serve ai singoli per rimettersi in gioco in nuove relazioni a due o tentare nuove dinamiche di relazione di gruppo.

L’efficacia di questo laboratorio è palpabile da ogni punto di vista. È efficace per il bambino, per il gruppo classe, per l’insegnante, per il gruppo insegnanti, per l’educatore, per il gruppo di educatori… Se poi l’effetto è portato a terra su ognuna di queste parti, allora diventerà efficace per il genitore, per la famiglia, per gli amici… per la società!

La ricaduta è sociale, permette di mettere in dubbio schemi reiterati di pregiudizio.

È corretto affermare che il vostro laboratorio mira
ad approfondire, e forse a rifondare, l’idea che ciascuno
ha della propria identità?

Lo consideriamo un ottimo esercizio preparatorio, da cui è possibile avviare un lavoro molto più diretto e accurato sul singolo. È una sorta di scena pubblica in cui mi metto in gioco per poi tornare tra me e me e riflettere su quanto ho scelto. Non vediamo l’ora di raccontarci, solo non siamo abituati a farlo così spesso da credere che possa essere uno strumento di crescita; non siamo abituati a considerare il nostro agire quotidiano come strumento di narrazione di noi stessi. La domanda corretta da rivolgere a un ragazzo di 12 anni dovrebbe a nostro avviso essere: Chi sei oggi? Chi eri settimana scorsa? Cosa ti piace e cosa non ti piace? Cosa hai provato a fare e cosa non hai provato a fare? Cosa ti senti in cuor tuo di fare e cosa non ti senti di fare? Cosa puoi e vuoi dirmi di te e cosa non vuoi dirmi ma ti limiti a scrivere? Cosa vuoi raccontare ai tuoi compagni e cosa consegni solo a me? Come scopri chi sei? Chi ti dice chi sei?
L’ultima volta che abbiamo fatto questa attività, subito dopo abbiamo chiesto ai bambini che avevano partecipato al gioco di trovarsi un loro spazio un po’ appartato nell’aula, in cui potevano stare un po’ da soli e a loro agio. Abbiamo dato loro in mano una sezione di albero e abbiamo chiesto di scrivere nella parte centrale del tronco i segreti, quelle cose che non erano disposti a scambiare con i loro compagni, e nella parte più esterna quelle cose che invece erano pronti, e anzi desideravano, cedere ai loro compagni. Prendendosi tutto il tempo che volevano, tanto o poco a seconda del singolo caso. Ciascun bambino ha fatto un gran lavoro su se stesso e un gran lavoro per il proprio gruppo. Molte cose non sono state svelate ma sono diventate un terreno di relazione prezioso per noi educatori e per l’insegnante di lingua che ci ha seguito; un terreno fertile di lavoro sulla narrazione.

L’esperienza degli insiemi mira a far scoprire l’interesse per la propria e altrui identità. Può essere lo strumento per coltivare la motivazione a guardarsi e a osservare gli altri senza la guida del pregiudizio ma concedendosi il dubbio. L’utilizzo degli insiemi non è sufficiente da solo per approfondire e rifondare l’idea che ciascuno ha della propria identità, perché per fare questo serve la rielaborazione di ciò che è successo, l’accompagnamento nell’andare ancora più a fondo e la reiterazione nel tempo della stessa pratica. 

I confini entro cui siamo rinchiusi e che ci rendono vittime e diffusori di pregiudizi il più delle volte non sono visibili.
Quali sono i vantaggi che derivano da una loro rappresentazione nello spazio?

Il gioco, la sua messa in scena, la simultaneità dell’azione di tutti nel gesto di avvicinarsi alla linea centrale, l’atto stesso di farsi vicino a qualcuno che poco prima stava al di là della linea, la possibilità di rivedersi attorno a quella linea con persone che non avremmo mai pensato di avere vicine crea grande stupore, la prima, e anche la seconda volta; poi, però, dà fiducia. Ci si guarda in faccia per riconoscersi, si ride insieme per non essersi riconosciuti prima. Scopro che essere franco potrebbe essere vantaggioso: chissà cosa succede? È un gioco, non ci sono giudizi, posso cambiare idea, anzi, quasi mi viene chiesto di cambiare idea con delle domande che si lambiscono e contendono il mio pensiero. 

La forza del “gioco” sta nell’utilizzo concreto dello spazio, utilizzare il proprio corpo per spostarsi da un insieme all’altro e visualizzare con gli occhi i cambiamenti, non una volta ma due, tre, quattro… e il cambiamento avviene ogni volta.

La possibilità per i bambini più piccoli di rivedere le domande scritte su una grande lavagna, così da vederle letteralmente cambiare, la possibilità per tutti, grandi e piccoli, di poter metter in scena pubblicamente la scelta, la possibilità di farlo attraverso un gioco senza sentire il peso della scelta, ma sentendo pian piano che la scelta fa la differenza, è fondamentale. La scoperta accade ed è condivisa. È manifesta, e grazie allo spazio, esiste.

Gli insiemi, i gruppi, di cui “facciamo” parte possono rivelarsi tanto una prigione quanto una fonte di rassicurazione.
In base alla vostra esperienza è possibile trovare un equilibrio
tra il terrore di sentirsi privati di un senso di appartenenza e
il desiderio di liberarsi dalle nostre etichette?

La tua domanda sollecita un’ulteriore riflessione. È un’attività che può essere usata per raggiungere obiettivi specifici e dichiarati in partenza: demolire alcuni meccanismi cronici del gruppo, come l’esclusione di alcuni compagni o supportare il gruppo nell’inserimento di una persona nuova. È un’attività che può essere usata per costruire coesione e dare autonomia al gruppo, come fosse un corpo che può lavorare da solo con l’accompagnamento dell’insegnante, come fosse un cervello collettivo. Scopro che quello che non so fare al meglio io lo sa fare benissimo lui, quindi insegno al mio cervello a lavorare con il cervello vicino: perché no?

Dipende anche da quando, sul piano della crescita o della vita in generale, incontriamo le persone che abbiamo davanti agli occhi. I gruppi possono forse diventare una prigione quando ci si sente sicuri di sé, determinati nelle scelte e propositivi, ma possono diventare fonte di rassicurazione quando il dubbio ci spaventa, le nostre difese sono alte, le energie basse e ci sentiamo insicuri. È necessario contestualizzare lo strumento e usarlo bene, osservare attentamente il comportamento dei partecipanti, rifarlo nel tempo.

Possiamo in ogni caso scegliere: stare ben dentro un gruppo che ci rassicura e ci rafforza, lasciare un gruppo, moltiplicare i gruppi a cui partecipiamo, cercare di allargare il gruppo quando ci sentiamo alle strette. 

In linea più generale potremmo usare le scoperte fatte per muoverci verso gli altri ogni volta che ne abbiamo la possibilità: è sempre la via più breve per non affezionarci ad un’idea preconfezionata di noi stessi. Troveremo conferme, stipuleremo patti inaspettati e longevi, punti di appoggio momentanei, e potremo girare i tacchi tutte le volte che vogliamo. Ci viene in mente la Canzone dell’appartenenza di Gaber: capita che arrivi prima la melodia e poi le parole, ma quando arrivano le parole…

Elena Turetti Dopo una lunga esperienza come docente, mi occupo di progettazione in ambito culturale dal 2009. Negli anni ho maturato una buona esperienza nella costruzione di partnership pubbliche e private, nel coinvolgimento delle scuole di ogni ordine e grado, dei musei, delle biblioteche attorno a bisogni educativi comuni, con particolare attenzione alla costruzione di comunità educanti, alla cittadinanza attiva di bambini e ragazzi, alla diversità come risorsa.
La volontà di spingere la sperimentazione sempre un po’ oltre, provare nuove strade per fare educazione e nuovi modi per costruire cortocircuiti tra i contenuti  e le modalità di apprendimento, lavorando sempre e comunque in équipe multidisciplinari, connota e qualifica il mio modo di lavorare.
Ho lavorato principalmente in contesti alpini e prealpini, con un occhio di riguardo alle esperienze di altri gruppi di ricerca attorno all’apprendere facendo e all’apprendere dall’errore, in contesti formali e informali.
Dedico una porzione cospicua del mio tempo alla sviluppo di progetti educativi dedicati alla lettura, alla letteratura illustrata, all’illustrazione in tutte le sue forme come possibile canale di espressione autonoma per adulti e bambini. Considero l’educazione uno dei principali strumenti critici a mia disposizione, che mi consente di guardare avanti e anzitempo ai cambiamenti della società civile e del suo rapporto con il paesaggio.
A tal scopo nel 2017 ho creato SPICCA un laboratorio permanente dedicato alla concezione e sperimentazione di progetti di educazione.

Luana Tomasi Pedagogista, laureata in Scienze Pedagogiche presso l’Università degli Studi di Verona, diplomanda della scuola triennale di Counselling professionale “Sintema” di Bergamo.  Negli anni mi sono occupata di educazione rivolta ai minori, minori disabili e famiglia.
In questo momento lavoro come pedagogista per la Cooperativa Sociale “il Cardo”, mi occupo di progettazione e realizzazione di progetti educativi rivolti ai minori e minori disabili nelle scuole e servizi extrascolastici.
Ho dedicato la mia tesi alla relazione tra creatività e problem solving, da cui sono partita per sviluppare negli anni un’attitudine educativa fondata sulle domande stimolo come base di crescita e apprendimento.Collaboro stabilmente in qualità di terapista con “Spazio autismo”, un centro abilitativo per persone con autismo, occupandomi di progetti ed interventi specifici per minori autistici tra i 2 e 17 anni.