Come funghi
Intervista a Maurizio Montalti
I funghi non godono di ottima fama. Certo, dal punto di vista gastronomico riconosciamo il loro valore, che a volte è definito addirittura pregiato. Abbandonata la tavola e i libri di cucina, però, siamo immediatamente portati ad associare il fungo a spiacevoli e per giunta disgustose infezioni, a esseri velenosi che amano prendersi gioco di noi con i loro colori e forme stravaganti.
Tuttavia, pare proprio che faremmo meglio a non averne paura e, soprattutto, a liberarci di tutti i pregiudizi che nutriamo nei confronti di questi esseri viventi così noti e al contempo poco conosciuti. Dovremmo, invece, guardarli con rispetto e provando a trarne ispirazione, perché, come loro, si provi a rialzarsi, a rigenerarsi e ricreare, anche da ciò che pensiamo sia perduto.
Il tema di questo mese è “Rialzarsi”, un gesto che pare ben esemplificato dai funghi, agenti capaci di rinascere e rigenerarsi, anche dalle macerie. Vorresti regalarci un tuo punto di vista in qualità di designer e progettista che sta conducendo numerosi lavori su questi esseri viventi?
Quando si parla di funghi, la prima cosa importante è definire che cosa sono. Sono in molti a pensare che questi esseri viventi appartengano al regno vegetale, ma i funghi non sono piante: costituiscono un regno a sé stante, che comprende milioni di specie, fra cui tante famiglie diverse dal punto di vista morfologico e in virtù della funzione che svolgono nell’ecosistema, dove tutto è connesso e interdipendente.
Il ruolo dei funghi nell’ecosistema è centrale. In particolare, la famiglia dei basidiomiceti è in grado di disgregare e trasformare la materia organica residua in valore, in nutrimento. I funghi sono i principali esseri viventi che conosciamo capaci di penetrare e digerire la lignina, ovvero la corazza che protegge la composizione interna del materiale legnoso e impedisce l’attacco di agenti che potrebbero nutrirsene e, così, danneggiare la pianta. È vero, esistono anche funghi patogeni, ma sono un’altra categoria rispetto a quelli di cui stiamo parlando: nel nostro caso, si tratta di funghi che potrebbero essere definiti i grandi agenti riciclatori del sistema naturale, poiché la materia organica che disgregano e trasformano in nutrimento a beneficio di altri esseri viventi è generalmente morta (foglie o rami secchi caduti dagli alberi, per esempio), residua.
La lingua italiana ci porta a fare un po’ di confusione. Con la parola “fungo” nominiamo tanto l’organismo quanto il suo corpo fruttifero, credendo però spesso che quest’ultimo coincida col primo. La casetta dei Puffi o i porcini che serviamo in tavola sono solo il frutto di un organismo complesso che sarebbe più corretto chiamare micelio. Il micelio consiste in una rete estremamente intricata di micro-filamenti, le ife, che siamo in grado di vedere a occhio nudo solo quando si concretizzano in un agglomerato. Le ife hanno un andamento casuale e svolgono un ruolo fondamentale nel sottosuolo: connettono tutti i sistemi viventi che vi esistono, permettendo loro di condividere informazioni e nutrimenti.
In un cm3 di suolo ci sono innumerevoli km di funghi. Basta diventare consapevoli di ciò per rendersi conto di quanto siano fondamentali: la rete cui danno luogo è così fitta che sembra tenere insieme tutta la Terra, ma soprattutto riesce a distribuire il nutrimento (agli insetti, a microorganismi, alle radici delle piante che altrimenti non saprebbero arrivare così in profondità, e via dicendo) e a rendere possibile la trasmissione di informazione tra tutti i sistemi viventi. È attraverso i funghi e non le loro radici che gli alberi della foresta possono comunicare. Metaforicamente parlando, potremmo dire che i funghi altro non sono che il primo internet: la prima forma di rete iperconnessa che trasmette informazioni su tutto il globo fra i sistemi viventi.
La presenza dei funghi è fondamentale per la creazione di un sistema capace di rigenerarsi in maniera resiliente, rispondendo agli stimoli e adattandosi ai cambiamenti. È qualcosa di interessante e sconvolgente, soprattutto se pensiamo che sappiamo ancora pochissimo su questo regno vivente: delle quasi quattro milioni di specie fungine che si ipotizza esistano sono state descritte poco più di un centinaio di migliaia. Averle descritte, peraltro, non significa conoscerle, bensì saperne raccontare alcune capacità: non sappiamo ancora, per esempio, come funziona precisamente il linguaggio molecolare attraverso cui comunicano, che è la chiave anche per poterne decifrare i comportamenti ed entrare in relazione con l’organismo.
La nostra cultura, purtroppo, ha a lungo teso a disdegnare i funghi: associandoli al ruolo di agenti decompositori, li ha sempre ritenuti qualcosa di sporco, pericoloso e potenzialmente portatori di infezioni. Eppure, come già accennato, la percentuale di funghi patogeni è nettamente inferiore a quella che non lo è. I funghi sono esseri viventi estremamente intelligenti e ci stupiremmo nel riconoscerne alcune capacità, soprattutto a livello di organizzazione sociale: da questo punto di vista possiamo dire che dimostrano di essere molto più evoluti di noi esseri umani.
Recentemente ho letto su DoppioZero un articolo sull’ultimo libro di Anna Tsing The Mushroom at the End of the World, in cui conduce una ricerca estremamente descrittiva invitandoci a pensare con i funghi, ovvero a ricomporre il mondo insieme ai non umani. Ora tu hai fatto riferimento alla possibilità che i vegetali hanno di comunicare attraverso i funghi, ma voglio farti una domanda un po’ particolare: se dovessimo immedesimarci in un fungo, come potrebbe pensare?
Questa è una domanda molto difficile. Avremmo una risposta se potessimo incontrare un fungo e parlarci, cosa che, in realtà, potremmo fare in tanti modi… Prima di tutto, però, tengo a dire che la relazione tra umano e non-umano è un argomento che mi è carissimo, alla base di molti progetti che sviluppiamo in studio. Vedere che sta interessando un numero sempre crescente di persone non potrebbe rendermi più felice. Credo che il libro di Anna Tsing sia fantastico, perché è riuscita a esemplificarvi dei concetti che io stesso non avrei saputo esprimere meglio: contiene nozioni al tempo stesso chiare e approfondite, ma, soprattutto, mette in evidenza la necessità di uscire da un punto di vista tremendamente antropocentrico e antiquato (vorrei dire passato, ma non è così) e di riconoscere nella natura qualcosa in divenire.
Ciò che dici mi fa venire in mente un episodio di pochi giorni fa, quando mi sono imbattuta in un sussidiario per la terza elementare e nella descrizione che vi era fatta degli ambienti naturali: montagne e colline erano presentate come se fossero sempre state lì ed eventualmente poi plasmate unicamente dall’azione dell’uomo.
Sono ancora in molti a pensare alla natura come a qualcosa di immobile o ad associarla a quella visione romantica che le attribuisce una perfezione assoluta che in realtà non esiste. La natura – lo sappiamo benissimo – è caratterizzata da comportamenti estremamente accesi, a volte anche molto violenti. Tuttavia, è capace di reagire agli stimoli.
Noi siamo soliti considerare l’impatto dell’uomo sulla natura come negativo a priori. In realtà, nel farlo, adottiamo un punto di partenza problematico: pensiamo che l’uomo non sia parte della natura e che, nel relazionarsi a essa, si confronti con qualcosa di esterno. Dobbiamo comprendere che noi facciamo parte di questo ecosistema, cui contribuiamo e che cambiamo attraverso la cultura, che a sua volta diventa natura, promuovendone l’ulteriore divenire: ogni azione che compiamo cambia il ritmo dei sistemi. Il divario tra natura e cultura non esiste (o meglio, esiste solo nella nostra mente), perché le due si informano vicendevolmente. Una volta compreso questo e se approcciamo il concetto di natura in modo responsabile e rispettoso, capiremo anche che i nostri interventi hanno, sì, un impatto, ma darne un giudizio positivo o negativo è qualcosa di esclusivamente umano. Questo discorso, ovviamente, non toglie importanza alla necessità di cambiare i nostri comportamenti sociali ben poco virtuosi e assai irrispettosi e dal grande impatto, ma vuole portare a riflettere sul fatto che non tutte le azioni di rottura che introduciamo nel sistema natura hanno necessariamente un effetto negativo. Anna Tsing fa l’esempio dell’intervento umano sulle foreste, sostenendo che gli stessi incendi possono rivelarsi un fattore positivo, che promuove la rigenerazione del suolo attraverso l’emergenza di alcuni funghi specifici. La natura è un sistema talmente complesso e interconnesso che è difficile banalizzarlo asciugandolo a un concetto assoluto e immobile. Al contrario, è fondamentale fare propria l’idea del divenire: a transitional becomig, panta rei. Tutto scorre. E non c’è più grande verità. Pensare che alcuni nostri saggi predecessori, più di 2000 anni fa (Eraclito, Platone, etc.), avevano già compreso chiaramente questa fondamentale nozione e che noi, ancora oggi, sembriamo faticare a comprenderla e accettarla fa “sorridere” e svela in maniera esplicita quanto limitato possa purtroppo essere il nostro grado di apprendimento a livello collettivo e sociale.
Vuoi raccontarci un tuo progetto a cui sei particolarmente legato e che può essere un esempio di quello che mi hai raccontato fino ad adesso?
Sono molti i progetti a me cari. Tuttavia, mi piacerebbe fare riferimento in particolare a due di essi, enfatizzando soprattutto alcuni aspetti.
Oggi, una delle attività principali che caratterizzano le mie pratiche professionali è creare nuova materia responsabile che possa essere introdotta in prodotti commerciali, effettivamente disponibili a tutti. Seppur, alla sua genesi, il mio lavoro sia nato dalla volontà di confrontarsi con i cicli di degradazione della materia. Quando ho cominciato a lavorare in modo approfondito con i funghi, il mio obiettivo non era tanto creare materiali sostenibili, quanto piuttosto comprendere i vantaggi e le opportunità che potessero derivare da una collaborazione tra umano e non umano impiegando l’agente fungino, degradante e riciclatore, come agente vivente impattante sulla materia già esistente. Nel corso del mio progetto di tesi alla Design Academy di Eindhoven, Continuous Bodies, ho esplorato le possibilità di degradare attraverso i funghi anche la materia sintetica e alla base della mia ricerca c’era una provocazione rivolta alla figura del designer, quindi in un certo modo anche a me stesso: basta con gli inutili esercizi di stile, si cominci a portare il campo della progettazione a considerare nuove modalità, come l’individuazione di potenziali rapporti tra umano e non umano, che possano contribuire ad affrontare uno dei più grandi problemi dei nostri giorni. Le plastiche, fantastici materiali che hanno caratterizzato la modernità a cui noi apparteniamo, hanno avuto un terribile impatto sull’ecosistema in cui viviamo e la causa non è la tecnologia in sé, ma siamo noi, dato l’utilizzo che ne facciamo: come può il fungo aiutarci ad affrontare un problema che abbiamo creato? Questa domanda, alla base della mia ricerca progettuale e creativa, ne portava con sé molte altre: è sensato trovare man made solutions a man made problems? Quale tipo di relazione con il vivente si deve sviluppare?
In secondo luogo, vorrei citare un progetto (The Growing Lab / Mycelia), nel contesto del quale già nel 2013 cominciavamo a studiare la possibilità di creare nuova materia appoggiandoci su materie residue di scarto provenienti da altri processi, agricoli o industriali. L’idea era di utilizzare qualsiasi substrato ligneo-cellulosico – materiale vegetale – per nutrire i funghi, cosicché questi potessero trasformare la materia di partenza a basso valore in nuova materia naturale ad alto valore; in particolare, in questo caso, il risultato trasformativo derivante da tali processi ruotava intorno alla chitina, lo stesso biopolimero che costituisce l’esoscheletro dei gamberetti. Scoprire che i funghi sono in grado di trasformare la lignina e la cellulosa in chitina (oltre ad altre componenti cellulosiche) è importante, perché, andando a informare le proprietà della materia a livello biologico, ci permette di controllare il tipo di risultato che ne consegue. E questo è qualcosa di rivoluzionario.
Il fungo può essere impiegato anche come agente aggregante. Se, per esempio, faccio in modo che in una “tazza di segatura” si trovino le condizioni adatte perché uno specifico fungo possa crescere, tali materiali inizialmente disgregati l’un dall’altro si trasformano in una massa compatta, grazie al fungo che agisce in qualità di collante naturale. Questa possibilità, che ho esplorato a livello creativo nel progetto che ho appena menzionato, si è trasformata in un’opportunità industriale e mi ha portato a far partire nel 2015 un’azienda in Italia – MOGU –, volta a portare in scala e standardizzare una serie di pratiche inizialmente esplorative e fortemente sperimentali, perché si trasformassero in prodotto: oggi MOGU produce elementi di arredo per gli interni che si basano su principi di fermentazione fungina. L’aspetto interessante è che se, almeno nella fase iniziale, non sei tenuto a tener conto delle problematiche che inevitabilmente l’industria e il capitalismo si portano dietro, ha la libertà di comprendere i valori che emergono da un certo approccio: una nuova pratica progettuale che guarda alla produzione come qualcosa che non è più il risultato di attività estrattive, bensì rigenerative nei confronti delle risorse (e non dei cosiddetti “scarti”) e che si configura come una riattualizzazione di antichissime pratiche culturali agricole trasportate nella contemporaneità con l’obiettivo di generare materia anziché cibo, materia che letteralmente viene fatta crescere in poche settimane attraverso l’utilizzo di risorse dal basso valore, che vengono tuttora considerate scarto dalle filiere da cui provengono. E che scarto non sono, se proviamo a considerare tale nozione come un prodotto esclusivo della cultura umana… Il valore è immenso, soprattutto nella misura in cui puoi fare esperienza della nuova matericità che si sviluppa nel corso di questi processi e, cosa che non accade nell’industria, dove l’esperienza sensoriale è il più delle volte del tutto annichilita; al contrario, è così possibile incontrare attraverso i sensi quei valori che, a livello di indagine e di ricerca – design-driven research –, sono fondamentali e ti arricchiscono, creando la possibilità di instaurare un rapporto sincero e diretto con la materia. La materia vivente.
Maurizio Montalti è designer, ricercatore, educatore e imprenditore. È fondatore e direttore artistico di Officina Corpuscoli, con sede ad Amsterdam, laboratorio-studio in cui l’oggetto di ricerca principale è il design, a partire da quale riflette tanto sulla cultura materiale contemporanea quanto sulla relazione tra agenti umani e non-umani, come parte della relazione complessa dell’ecosistema dinamico a cui apparteniamo. Distillando ricerca e analisi attraverso la materializzazione di narrative tangibili, il suo lavoro prova a creare visioni e condizioni che permettano esperienze di design critiche e potenti. Lavorando a cavallo tra design e biotecnologie, Maurizio è stato tra i primi a occuparsi dello studio e dello sviluppo di svariate tecnologie basate sui funghi, in particolare della creazione di bio-materiali naturali innovativi e i relativi artefatti e prodotti.
Maurizio è co-fondatore, designer e direttore Ricerca e Sviluppo di Mogu, una società di design innovativo volta alla creazione di soluzioni e prodotti ad alte prestazioni derivati dai funghi. Vanta un’ampia esperienza in ambito educativo, come co-direttore del Master MAD (Materializzazione nell’Arte e nel Design) presso il Sandberg Instituut di Amsterdam, ricercatore presso la Design Academy di Eindhoven e insegnante e tutor in diverse accademie e università olandesi e internazionali. Il suo lavoro ha ricevuto numerosi premi, ha avuto larga visibilità mediatica ed è stato esposto in tutto il mondo in prestigiosi musei, gallerie e istituzioni, inclusi il MOMA (New York), il Centre Pompidou (Parigi), il Design Museum (Londra), La Triennale di Milano, il MAXXI (Roma) e il Museo di Arti Applicate (Vienna).