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Saggio chi ascolta

Intervista a Rosa Tiziana Bruno

Che cosa significa fare proprio un pensiero ecologico? Che cosa comporta un’educazione che metta al centro l’ecologia?
Abbiamo intervistato Rosa Tiziana Bruno, autrice di Educare al pensiero ecologico (Topipittori, 2020), affinché ci raccontasse le strategie messe in campo nel corso delle sue ricerche sul campo con bambini e ragazzi e ci suggerisse e spiegasse gli aspetti sui quali puntare l’attenzione se l’obiettivo che ci si vuole porre è la costruzione di un mondo sostenibile.

Nel tuo libro riporti queste parole di Patrice Ras: «L’ascolto è un’azione invisibile: fare un po’ di posto all’altro o addirittura fare tanto posto all’altro, e permettergli di parlare. […] Si tratta quindi di una competenza, di un savoir faire subito utilizzabile, che trasforma qualcosa o qualcuno». Sostieni che l’ascolto sia necessario per introdurre un percorso di educazione al pensiero ecologico. Perché questa capacità è così importante ed essenziale?

Quando dico che l’ascolto è fondamentale per introdurre all’educazione ecologica penso a quest’ultima come un’educazione al senso di comunità e alla presa di consapevolezza della relazione che lega tutti noi tra noi, a tutti gli esseri viventi e alla Terra. Il saper ascoltare ci permette di comprendere questa relazione, così come l’incapacità di ascoltare ci confina in universi isolati, in mondi divisi. 
Oggi, secondo me, viviamo gli uni separati dagli altri, nonostante l’apparente facilità di connessione, e tutto è organizzato secondo regole di competizione, predazione e sopraffazione. Del resto, finché io percepisco l’altro come estraneo e non mi rendo conto dell’appartenenza reciproca che ci unisce, è naturale che il conflitto diventi l’unica forma di comunicazione praticabile. 
Che cosa accada quando siamo consapevoli della relazione che ci lega agli altri è qualcosa che sperimentiamo nel contesto della famiglia: siamo sempre disposti a fare un piccolo sacrificio, a comprendere e a pazientare in nome del legame che sentiamo nei confronti delle persone a cui vogliamo bene. Man mano che si fa strada il sentimento dell’estraneità avanza anche un atteggiamento competitivo, predatorio e di sopraffazione. 
L’ascolto è la via maestra per entrare in comunicazione con l’altro, per conoscerlo, per scoprire la profondità della relazione che ci lega e di come non possiamo sopravvivere gli uni senza gli altri.


Nel libro racconti un’esperienza che hai praticato in prima persona nelle scuole: il Fiabadiario. In che cosa consiste?

Il Fiabadiario è una strategia didattica praticabile nell’insegnamento di tutte le discipline e, quindi, anche nell’educazione ecologica. Parlo appositamente di strategia didattica e non di metodo perché quest’ultimo avrebbe un carattere troppo rigido, mentre la prima rivela un continuo tentativo di ingegnarsi per trovare lo strumento adatto e capire come utilizzarlo per raggiungere il fine che ci poniamo. 
Il Fiabadiario si articola in cinque passaggi e si basa sull’incontro tra la letteratura e la natura. Si parte da testi narrativi – romanzi, albi illustrati o racconti – e attraverso la lettura si stimola il dialogo e si educa all’ascolto e alla riflessione. Alla lettura segue un momento di scrittura e infine, in una passeggiata, si incontra la natura. Le tappe si armonizzano secondo un unico filo conduttore: non sono da intendersi come una somma di momenti scollegati. È un viaggio che parte dalle parole dei libri e arriva lontanissimo.
L’intero percorso è un’educazione all’ascolto, che porta a divenire consapevoli della relazione che ci lega e ad andare incontro all’altro. L’obiettivo è far sì che muti l’atteggiamento interiore: si sviluppa la cosiddetta ecosaggezza, ovvero la capacità di essere in equilibrio con noi stessi, con i nostri simili, con la Terra e con tutte le creature viventi, così da raggiungere una sensazione di felicità e benessere. 
La questione ambientale non è risolvibile se la osserviamo solo da un punto di vista scientifico: è un problema sociale, di relazioni. Purtroppo, però, nonostante siano ormai in molti a riconoscerlo – a cominciare da Onu e l’Unesco – ancora oggi si tende a concentrare il discorso sull’aspetto scientifico o a cercare di capire quali strumenti tecnologici potrebbero ridurre l’inquinamento. Il punto su cui insisto è che, se continuiamo ad avere un atteggiamento di predazione e sopraffazione gli uni verso gli altri, nessuna tecnologia o progresso scientifico potranno mai salvare il pianeta. Certo, ben venga il depuratore per l’industria, ma non è qui che si gioca la partita. Dobbiamo imparare ad ascoltare, a entrare in sintonia con gli elementi naturali e diventare consapevoli della relazione che ci lega se il nostro obiettivo è la costruzione di un mondo sostenibile. Dobbiamo puntare sull’educazione.


In Per un ombra dal futuro il pensatore inglese Timothy Morton scrive: «Studiare arte è importante, perché a volte l’arte dà voce a ciò che altrove è indicibile – temporaneamente: un giorno troveremo le parole; o intrinsecamente: le parole sono impossibili –. Essendo il pensiero ecologico così nuovo e così aperto, pertanto così difficile, dovremmo aspettarci che l’arte ci indichi un tratto della strada». Che cosa ne pensi?

Sono assolutamente d’accordo e queste parole mi portano a sottolineare l’importanza della metafora, che è un espediente linguistico molto usato nell’arte letteraria proprio per dire l’indicibile. Noi abbiamo tantissime parole, eppure a volte non bastano per dire quello che vorremmo. O meglio, a volte non è ricorrendo a una grande quantità di parole che riusciamo a esprimere quello che sentiamo. È più efficace usarne pochissime giocando con esse attraverso l’espediente della metafora: utilizzando poche parole la metafora evoca immagini e trasmette ciò che non riusciremmo a comunicare in altro modo. 
L’esperienza dell’incomunicabilità è nota a tutti: quante volte cerchiamo di dire qualcosa a qualcuno senza riuscire a farci capire? Ecco, in questi casi credo che il segreto sia nella capacità di rendere visibili all’altro le immagini che abbiamo dentro e che desideriamo trasmettere. L’immagine che offre è così immediata che spesso la metafora ci consente di comprendere meglio ciò che abbiamo dentro di noi e ci aiuta a comunicare in modo semplice, immediato e comprensibile a chiunque. Nel Fiabadiario la metafora ha un ruolo fondamentale e a me piace giocarci sia in forma orale che scritta. Del resto, il linguaggio metaforico è alla base della buona scrittura. E la letteratura, che si serve della metafora, diventa uno strumento prezioso per l’educazione al senso di comunità, all’ascolto.

Grazie alla casa editrice Topipittori per l’immagine

Oltre all’ascolto e al silenzio nel tuo libro colpisce anche il riferimento alla “saggezza dello stupore”. In cosa consiste?

Io credo che a paralizzare le nostre azioni e a rendere invisibile la relazione che ci lega e, di conseguenza, a metterci in competizione gli uni contro gli altri, sia la nostra convinzione di sapere e di aver capito tutto. Ognuno di noi si appoggia su quelle quattro cose che sa, sicuro che siano sufficienti a ottenere buoni risultati e a gratificarlo. Questo, però, è un atteggiamento di cecità, che ci impedisce di notare la realtà immensa intorno e dentro di noi: una realtà infinita, misteriosa, affascinante e ancora tutta da esplorare. 
Il riconoscere la propria ignoranza e l’essere capaci di meravigliarsi e di stupirsi, nelle grandi come nelle piccole cose, è una saggezza: è l’atteggiamento che ci rende vivi e che ci permette di avere un comportamento in grado di condurci all’equilibrio con l’universo in cui siamo immersi. Siamo, al contrario, in assoluto disequilibrio se continuiamo a pensare di sapere tutto e di non aver bisogno di scoprire null’altro. Un simile modo di pensare può rivelarsi rischioso e ciò che sta avvenendo lo dimostra: stiamo distruggendo il pianeta convinti di essere onnipotenti, così intelligenti da potere tutto. Sapersi stupire e ammettere che del mondo, in realtà, sappiamo ben poco mi sembra decisamente più saggio.

Grazie alla casa editrice Topipittori per l’immagine

Il tuo libro mi ha fatto ripensare alle parole di Edgar Morin, che in Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione parla della necessità di «[…] introdurre la scienza ecologica come materia a pieno titolo in tutto il ciclo scolastico perché questa scienza ristabilisce la radicalità della relazione natura/cultura, umanità/animalità, che si è trovata disgiunta nella civiltà giudaico/cristiana (l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio nella Bibbia, destinato all’immortalità da San Paolo), disgiunzione aggravata nella civiltà attuale (l’uomo che diventa padrone e possessore della natura secondo Descartes) e che poi, a partire dal ventesimo secolo, corrompe non solo la biosfera, ma la stessa civiltà che produce questa corruzione»1.
Ho la sensazione che, nonostante il richiamo di molti – tra cui il tuo –, il tema ecologico sia ancora affrontato come uno dei tanti e non come il tema per eccellenza che, visto che da esso dipende tutto il resto, dovrebbe contraddistinguere ogni percorso. Qual è la tua opinione in merito?

Io credo che la scienza ecologica non debba costituire una disciplina a sé. Parlare di ecologia significa riferirsi all’ambiente e allo stare in equilibrio con esso e questi sono temi sociologici. 
La scienza ecologica non studia un oggetto, ma invita a costruire un atteggiamento che ci permetta di essere felici e in armonia, con ciò che ci circonda e con noi stessi. Ecco perché è uno studio trasversale a tutte le discipline ed è importante che esca anche fuori dall’aula. 
Sono convinta che tutta l’educazione debba cominciare a uscire fuori dall’aula, ma non mi riferisco all’outdoor education in senso stretto, che a volte si limita a portare i bambini a giocare all’aperto per fare esperienza della natura. Per entrare in relazione con la natura non è sufficiente uscire: è necessario imparare ad ascoltare. Se sono all’aperto e non so ascoltare non solo con le orecchie, ma con tutti i miei sensi ciò che mi circonda, l’outdoor education perde di significato. La pratica fuori dalle mura scolastiche è fondamentale, ma deve essere una conseguenza dell’educazione all’ascolto e alla relazione. 
L’ecologia dovrebbe tradursi nell’assunzione di nuovi atteggiamenti interiori. I bambini ormai sanno che non si dovrebbe buttare la bottiglia di plastica nel mare: se lo sono sentiti ripetere molte volte, come nozione, l’hanno acquisita. Questo vale ovviamente anche per gli adulti. Eppure, ben sapendo che non dovremmo inquinare, lo facciamo lo stesso. 
Il punto non è evitare di buttare la bottiglia in mare: ma decidere che non devo farlo perché il mare mi sta a cuore, perché è per il mio bene e per il bene degli altri. Insomma, la spinta intellettiva deve essere corroborata da quella emotiva e sentimentale, altrimenti nulla cambierà mai.

Grazie alla casa editrice Topipittori per l’immagine

NOTE

1  E. Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina Editore, 2015, pp. 86-87.

Rosa Tiziana Bruno, sociologa e insegnante, è autrice di saggi sull’educazione, racconti fiabeschi e romanzi. Si occupa di formazione docenti e conduce ricerche scientifiche sulla didattica narrativa. Dal 2014 è direttrice artistica del festival di letteratura per ragazzi Scampia Storytelling. Nel 2017 ha vinto l’International Writers Awards, assegnato dall’Institute for Education, Research and Scolarship (IFERS) di Los Angeles. È stata candidata al Premio Strega Ragazzi 2016, al Premio Bancarellino 2017 e 2018, e finalista al Premio School in Motion 2019. È Educatrice National Geographic.