Un’arte quasi inurbana
Articolo a cura di Danilo Faravelli
Nella Critica del giudizio di Kant, a dispetto del grado di raffinatezza raggiunto dall’arte compositiva del suo tempo, leggiamo un giudizio sulla musica che, pur essendo incontestabile nella sostanza, ci lascia a dir poco allibiti. Il filosofo tedesco afferma
esserle propria quasi una mancanza di urbanità, specialmente per la proprietà, che hanno i suoi strumenti, di estendere la loro azione al di là di quel che si desidera, (sul vicinato), per cui essa in certo modo si insinua e va a turbare la libertà di quelli che non fanno parte del trattenimento musicale; il che non fanno le arti che parlano alla vista, perché basta rivolgere gli occhi altrove, quando non si vuol dar adito alla loro impressione. È presso a poco come del piacere che dà un odore che si spande lontano. Colui che tira fuori dalla tasca il suo fazzoletto profumato, tratta quelli che gli stanno intorno contro la loro volontà, e, se vogliono respirare, li obbliga nello stesso tempo a godere; perciò quest’uso è anche passato di moda.1
Se, anziché un contemporaneo di Haydn, Mozart e Beethoven, Kant fosse un uomo del nostro tempo c’è da giurare che farebbe parte della triste schiera di quegli inflessibili rigoristi che denunciano il loro vicino di casa, pianista o violinista di professione, per essersi esercitato in vista di un concerto cinque minuti oltre i limiti stabiliti dal regolamento condominiale.
Cesare Beccaria, altro grande contemporaneo di Kant, procedette per così dire in senso inverso. Fra i suoi scritti meno noti, il curioso Frammento sugli odori,pubblicato sulla rivista Il Caffè, ipotizza l’avvio di una nuova moda sul fronte dell’attività estetica: l’organizzazione di piccole adunate di cultori del senso dell’olfatto finalizzate a procurare godimento mediante l’immersione in armoniose mescolanze di profumi.
Sia che ci si senta in sintonia con l’indole penitenziale di Kant, sia che si propenda per lo spirito gaudente di Beccaria, è comunque interessante notare come, fra i cinque sensi, udito e olfatto si trovino accomunati dal dipendere totalmente dalla benedizione/maledizione dell’aria. È infatti l’aria a costituire la sostanza e il veicolo di ciò che il nostro orecchio ode; così come è l’aria a incorporare e far veleggiare verso le nostre narici puzze, odori, profumi e fragranze.
Ma fermiamoci alla musica e alla sua forza seduttiva contrapposta alla sua “quasi inurbanità”, alla sua presunta invadente villania. Fino a che punto delle belle forme melodiche e ritmiche possano procurarci godimento e gioia passando dalla carta pentagrammata all’aria vibrante è risaputo. Un po’ meno familiare ci risulta la verità opposta, ma, a darcene piena coscienza, basterebbe una semplice valutazione a posteriori riguardante le responsabilità dell’aria nell’aver reso inarginabili, e perciò beffardi e macabri, i suoni festosi della Cavalleria leggera di von Suppé eseguita ad Auschwitz da orchestrine di deportati: aria fatta vibrare per il piacere perverso dei timpani di una belva in camicie bianco, il dottor Joseph Mengele; aria fatta vibrare per l’angoscia opprimente di centinaia di orecchi disperati in attesa di sterminio e affamati solo di silenzio, di definitiva immobilità.
NOTE
1 I. Kant, La critica del giudizio, Bari, Laterza, 1997.
Danilo Faravelli, nato nel 1953, si è appassionato alla musica d’arte negli anni dell’adolescenza. Sin da subito ha preferito consacrarsi a una prospettiva interdisciplinare del culto a cui si sentiva vocato: anziché sognare di diventare virtuoso della tastiera o dell’archetto, si è avventurato per anni in esperimenti alchemici miranti a combinare l’Arte dei Suoni con la prosa letteraria, il teatro, la poesia, la corporeità, il gioco, i piaceri della tavola e la pittura.