Lettere dal futuro
Articolo a cura di Emanuele Braga
I Landscape Coreography hanno coinvolto i bambini nella creazione di un nuovo alfabeto. Che cosa occorre, però, per inventare un nuovo modo di comporre significati? Quale forma avrà il linguaggio che ne seguirà? Il segno scritto è davvero l’unico aspetto che può assumere il più piccolo elemento di un alfabeto?
Emanuele Braga ci accompagna alla scoperta dei punti cardine su cui si è sviluppata l’esperienza laboratoriale, sviluppata a Mantova all’interno del progetto E se diventi farfalla… e a Milano, presso la scuola primaria Radice di via Paravia, con L’Abbecedario dei gesti del futuro: attività che, in entrambi i casi, hanno permesso la nascita di un alfabeto corporeo.
Alla base del nostro lavoro ci sono un’investigazione del linguaggio del corpo, che arriva da una tradizione molto stratificata del teatro fisico e della danza contemporanea, e il desiderio di sperimentare questa ricerca esclusivamente con dei bambini. Dall’esterno può sembrare un linguaggio improvvisato, elaborato quasi sul momento da chi conduce, ma non è così: è un linguaggio fatto di strumenti e sintassi abbastanza precisi, che ora cercherò di illustrare.
La relazione fisica
e la definizione dello spazio
La tradizione della danza contemporanea suggerisce un esercizio che permette di sperimentare i concetti opposti di attivo e passivo: attraverso il linguaggio fisico è possibile indagare fino a che punto si riesca, da un lato, a condurre un altro corpo e, dall’altro, a lasciarsi condurre da quello di un altro. Praticando questo esercizio si può capire bene come instaurare un rapporto di fiducia, sia per chi si lascia definire dal punto di vista dello spazio-corpo sia per chi conduce. A un certo punto, nello sperimentare questa soglia, si innesca una dinamica dove si scoprono insieme dei percorsi e si fruisce di spazi che si creano al di là di quello che si vuole o dell’intenzione altrui. È un esercizio che porta ad affidarsi all’altro e a chiedere all’altro di affidarsi a sé, al di là dei codici che già conosciamo, in un nuovo meccanismo generativo.
Lo spazio che viene a costruirsi in questo modo è definito da più punti di vista. Per esempio, lo sguardo può essere catturato da un elemento che scorge in un angolo della stanza e, improvvisamente, gettarsi su un punto di fuga molto lontano. All’interno del proprio spazio-corpo cominciano ad aprirsi diversi occhi – anche di oggetti, di presenze non umane – che, d’un tratto, creano un punto d’attenzione. La scatola che si abita inizia piano piano a diventare una specie di scatola magica, dove, accanto a noi che agiamo, si manifestano altri punti, occhi – soggetti veri e propri – che siamo invitati a considerare e ad ascoltare e con cui potremmo entrare in relazione.
Esperienze come queste si basano sull’attenta ricerca che si è sviluppata nel Novecento a partire dal teatro fisico e dal teatro danza, con il lavoro di Grotowski, di Eugenio Barba e di Pina Bausch. In merito alla funzione degli oggetti non umani che definiscono la relazione sono importanti il lavoro di Sasha Waltz nel contesto dello spazio urbano negli Stati Uniti e le sperimentazioni di Archizoom in merito a Superstudio e ai Global Tools: ricerche che si iscrivono in una tradizione volta a capire come all’interno della relazione fisica e della definizione dello spazio che abitiamo si possa instaurare un concatenamento vivo e generativo di sorpresa con gli oggetti che ci sono.
Proporre ai bambini un’esperienza basata su questa sintassi ci ha permesso di comprendere come per loro, in realtà, un simile linguaggio sia molto familiare: il loro grado di attenzione e di comprensione nei confronti di questa sintassi è molto automatica ed evidentemente funziona. La scatola performativa che definisce lo spazio e gioca attraverso l’ascolto dei corpi offre loro un linguaggio operativo, che riconoscono e capiscono.
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I bambini che abbiamo coinvolto in questa esperienza frequentavano la scuola dell’infanzia e primaria. Se fossero stati più grandi – preadolescenti o adolescenti – verosimilmente avremmo assistito a qualcosa di molto diverso. Proporre un simile esercizio a chi sta vivendo la transizione dall’infanzia all’età adulta richiede una maggiore insistenza sulla necessità di sospendere il giudizio: è inevitabile l’invito a evitare di capire che cosa si sta facendo secondo le logiche del linguaggio sociale parlato. Con i ragazzi e le ragazze più grandi, e a maggior ragione con gli adulti, manca l’immediatezza che si trova con i bambini della scuola elementare e materna: una volta compreso l’esercizio di spoliazione, l’esperienza funziona ugualmente con tutti, ma più si è grandi più si rende necessario e lungo il momento di decostruzione. In occasione del lavoro fatto con alcune scuole dell’infanzia di Mantova, abbiamo coinvolto le maestre in esercizi simili a quelli fatti con i bambini: con loro è stato molto più frequente e inevitabile, da parte mia, l’invito a non commentare o a non stipulare un accordo parlato prima di buttarsi. Il bisogno di creare una precondizione per potersi tuffare, anziché semplicemente tuffarsi tra le braccia altrui, è fortissimo negli adulti e quasi del tutto assente nei bambini, che, immaginando già che cosa verrà dopo, non sentono la necessità di fare contratti.
Il ritmo
In queste improvvisazioni il tempo, e più in particolare il ritmo, è un elemento fondamentale. Quando si crea la scatola generativa di cui abbiamo parlato diventa evidente il bisogno tanto di eventi quanto di vuoti: deve accadere qualcosa, ma, per un certo lasso di tempo anche prolungato, non deve accadere nulla.
Studi di teatro, danza e antropologia hanno riconosciuto che, in questo tipo di sintassi, ovvero nel linguaggio del corpo, il ritmo è il vero pilastro. Personalmente, per esempio, mi è capitato di lavorare con le partiture per il teatro di John Cage: serie di eventi che dovevano accadere in una successione apparentemente incomprensibile e priva di logica, ma basata su una sequenza ritmica che alternasse un avvenimento all’attesa del successivo.
Questo ritmo è molto familiare ai bambini, che hanno una grande dimestichezza con la noia: il non sapere cosa fare, quali significati attribuire agli oggetti che hanno intorno o come usare giocattoli per cui non dispongono di istruzioni precise è il motore più interessante che li porta a generare nuovi mondi. Così, quando nel nostro laboratorio proponevamo momenti di sospensione in attesa di un accadimento, per i bambini si creava uno spazio molto familiare.
La ritualità
Quando il ritmo si lega agli elementi spazio-corporali di cui parlavamo all’inizio si crea una combinazione molto importante: la somma tra ritmo e spazio, come abbiamo potuto sperimentare nel laboratorio, ha nel rito il suo risultato. Col passare degli appuntamenti, far vedere ai bambini che il nostro stare insieme è garantito da una struttura – da un ritmo e dall’abitudine a definire lo spazio attraverso l’improvvisazione – crea un pattern di ritualità. Infatti, il nostro laboratorio si articola in tre fasi riconoscibili: un inizio e una conclusione che si ripetono e una parte centrale che passa attraverso una drammaturgia che, pur nella varietà, alterna climax a momenti di attesa.
Inventare, creare e stabilire una ritualità fatta di un inizio, una fine e un momento di passaggio in cui lo spazio è ridefinito genera di volta in volta leggere differenze: modi in cui, curiosamente, si ripercorre la nota ritualità, declinazioni diverse degli eventi ma eredi dello stesso significato. Per i bambini questo movimento rituale è molto importante, poiché nel rassicurarli nel loro desiderio di avere una struttura, non la impone. Al contrario, la struttura appare come un modo di scoprire, di dare concretezza alla possibilità di essere curiosi.
Emanuele Braga è un artista, ricercatore e attivista il cui lavoro si concentra sul rapporto tra arte, economia e nuove tecnologie. Negli ultimi anni ha co-fondato e sviluppato diversi progetti come la compagnia di danza Balletto Civile, dove ha lavorato come coreografo, performer e insegnante. È anche co-fondatore e membro del MACAO, nuovo centro per l’arte e la cultura, e Landscape Choreography, per il quale ha lavorato come regista, curatore e ricercatore; è co-fondatore dell’Institute of Radical Imagination (IRI), un think tank artistico transnazionale che mette in discussione le alternative post-capitaliste. Lavora anche con Ebony Decolonize Work, una piattaforma di design per richiedenti asilo, e KINLab, uno spazio d’arte a Milano.