Cosa cambia?
Articolo a cura Arianna Cavallo
Riportiamo qui di seguito, per concessione dell’autrice e con l’aggiunta di qualche modifica da lei stessa apportata, l’articolo di Arianna Cavallo pubblicato su Cose spiegate bene. Questioni di un certo genere, il secondo volume della rivista del Post edita da Iperborea.
Per il mondo, mia figlia è un maschio. Non sono i tratti, i gesti, la voce dei suoi tre mesi di vita a tradirla con gli sconosciuti: la colpa ricade su di me, per decisioni prese già prima della sua nascita. La prima e più colpevole è una carrozzina blu notte, seguita da una cascata di body celesti, magliette alla marinara, calzoncini grigi e tutine con coccodrilli, ereditati da altre mamme o comprati con incuranti incursioni nei reparti da neonato. Il blu identifica un genere anche quando si addensa nei cuoricini di un body bianco o su un paio di pantaloncini con vezzosissimi volant e, accoppiato alla famigerata carrozzina, la fa scambiare spesso per “un bel bambolotto”. È una scelta più civettuola che ideologica, che prendo con la leggerezza di una mamma di bambina: posso vestirla con i colori che preferisco, farla giocare con le automobiline, leggerle libri di ragazze ribelli, additarle a esempio ministre e astronaute. La mia coscienza è allenata contro alcuni stereotipi di genere che hanno intrappolato le generazioni passate e che fanno ancora scintillare gli occhi a molte nonne: vestitini rosa, pizzi, fiorellini, regali di bambole e mini-cucine, cinguettanti lodi su bellezza, grazia e ubbidienza.
Non riconoscere un bambino quando è maschio, invece, è un po’ più raro perché molte barriere legate al genere non sono state scavallate. Il rosa è praticamente assente in abiti, giochi e accessori mentre alcuni animali e simboli connotati come femminili sono spesso evitati, più automaticamente che per scelta, come mi confermano molte mamme della chat su Whatsapp del corso preparto che ho frequentato. Quando cercavo un costumino per la piscina i commessi del negozio mi risposero che quelli da femmina abbondavano perché molti genitori avevano scelto anche per le figlie quelli connotati come da maschi, con balene e delfini azzurri anziché viola. E quando, con titubanza, offrii a un’amica incinta di un maschio delle tutine ormai piccole, rosa e piene di cigni, lei – di vedute di certo non ristrette – rifiutò ridendo: «non esageriamo con il gender fluid». Anche il terreno neutro della prima infanzia, fatto di colori delicati e orsetti di peluche, non solo è destinato ad assottigliarsi con la crescita ma è subito minato dalle convenzioni di genere: mi chiedo se si fermino ai colori o coinvolgano atteggiamenti più profondi, gesti e parole.
Qualche anno fa una mia amica mi mandò questo messaggio su suo figlio, che allora aveva cinque anni e aveva appena scoperto l’esistenza della Giornata internazionale della donna:
«Jacopo ieri sera era disperato perché non capiva perché ci fosse una festa della donna e non dei maschi. Gli ho spiegato perché esisteva e lui mi ha detto che non capisce perché se oggi posso fare l’avvocato mi serve una festa che non c’è per i maschi. Mi ha detto che lui vuole le gentilezze anche se è maschio, come gli ha detto di fare la maestra con le femmine. Piangeva. Mi ha detto “allora mamma io voglio che la cancelliamo SUBITO”».
È un episodio che mi torna in mente e mi fa chiedere se nel cammino per la parità e l’emancipazione stiamo perdendo un po’ di pezzi rischiando di creare qualche nuovo squilibrio. È inevitabile che le donne, per ragioni storiche, abbiano maggiore consapevolezza della propria condizione e più strumenti per affrontarla e questa consapevolezza si è riversata anche nell’attenzione con cui crescere le figlie. La riflessione su come educhiamo i figli maschi mi pare invece più trascurata, con il rischio di lasciarli impigliati nei modelli del passato. Negli ultimi anni, anche in Italia, per le bambine sono usciti libri, giocattoli, cartoni animati freschi e lontani dagli stereotipi: storie con eroine indipendenti e ribelli, bamboline nel ruolo di chimiche e pilote di aerei, spot con bambine che si divertono a costruire oggetti e che sognano di fare le ingegnere anziché le baby-sitter.
Per i bambini non è stato fatto altrettanto e ancora oggi sono spesso incoraggiati a primeggiare in giochi fisici e competitivi, imparano presto a evitare i colori da femmine e a vergognarsi di lati deboli e tenerezze. A otto anni il figlio di una mia amica le chiese di rivestire la copertina piena di cuccioli di un quaderno per non essere preso in giro dai compagni, un’altra amica venne criticata per aver vestito il figlio di tre anni con il costume che desiderava per Halloween: una splendida farfalla viola. Ancora regalare un aeroplano o un finto laptop a una bambina non colpisce più di tanto ma scegliere una bambola per un maschio resta una presa di posizione. Il primo video pubblicitario in cui un bambino gioca con una Barbie uscì solo nel 2015: l’idea era di Jeremy Scott, il direttore creativo dell’azienda di moda Moschino che vestiva la bambola per l’occasione, che spiegò la scelta dicendo che «come tutte le ragazze e i ragazzi gay amo Barbie».
In un articolo pubblicato sul New York Times nel 2017, “Talking to Boys the Way We Talk to Girls”, il giornalista Andrew Rainer aveva raccolto una serie di studi che mostravano quanto i bambini maschi fossero emotivamente e intellettualmente danneggiati dal modo in cui i genitori, per primi, si rivolgevano a loro (si generalizza, ovviamente): sceglievano, mediamente, un linguaggio più involuto e povero, più assertivo e meno empatico di quello che utilizzavano per le femmine. Una ricerca condotta nel 2014 aveva per esempio scoperto che le madri interagivano con le parole molto più spesso con le neonate che con i neonati. Un altro studio condotto da ricercatori britannici osservava il linguaggio utilizzato da alcune madri con i figli di quattro anni, scoprendo che con le femmine usavano vocaboli legati all’emotività più di quanto facessero con i maschi; lo stesso studio condotto sui padri aveva mostrato che parlavano più spesso delle proprie emozioni con le figlie che con i figli. Secondo i ricercatori, queste discrepanze sono tra i motivi dei migliori risultati scolastici che le bambine e le ragazze ottengono solitamente rispetto ai maschi. Altre ricerche mostrano che i genitori sono meno perentori con le figlie e che non si limitano a vietare una cosa ma ne spiegano anche il motivo. Infine un esperimento condotto per trent’anni dalla Harvard Medical School su lattanti di sei mesi e sulle loro madri ha osservato che i maschi risultano meno capaci delle femmine di gestire le emozioni ma che le madri insegnano loro a controllarle più di quanto facciano con le figlie.
Una trasformazione decisiva avviene attorno ai 4-6 anni di età. In quel periodo molte bambine iniziano ad associare la femminilità alla debolezza e alla goffaggine, come mostrava bene un video circolato online qualche anno fa: a un gruppo di bambine veniva richiesto di correre “come una ragazza”, le più grandi lo facevano quasi tutte in modo ridicolo e scomposto mentre quelle che avevano meno di 6 anni si impegnavano con spirito competitivo, non avendo ancora interiorizzato l’espressione come svilente e denigratoria. Secondo uno studio portato avanti per due anni dalla biologa Judy Chu, prima di andare alle elementari i maschi hanno la stessa abilità delle femmine di leggere le emozioni degli altri e di coltivare amicizie, poi cambiano atteggiamento, tramutano l’empatia in distacco, diventano più competitivi e tengono un po’ alla larga gli amici; lasciano emergere fragilità e dolcezza un po’ più a lungo soltanto a casa, se vengono incoraggiati a esplorarsi più liberamente.
La scuola e il ruolo degli insegnanti, invece, è estremamente importante anche nel contrastare le conseguenze limitanti degli stereotipi di genere. La Svezia è uno dei paesi più impegnati su questo fronte già dagli anni Novanta, quando gli insegnanti della scuola per l’infanzia di Trodje, una piccola città sul Mar Baltico, si osservarono in alcuni filmati e si accorsero di trattare in modo diverso i bambini in base al genere: aiutavano molto di più i maschi a fare le cose e davano per scontato che le femmine fossero autonome. La scuola adottò una sorta di strategia compensativa, spingendo maschi e femmine a fare cose opposte a quelle tradizionalmente associate al loro genere. Ora quei bambini sono cresciuti e, stando ai primi studi che li riguardano, i maschi arrivarono alle scuole elementari con un linguaggio più ampio e le femmine con più autostima rispetto agli altri bambini dello stesso genere; tutti avevano una maggiore consapevolezza degli stereotipi di genere.
Sempre in Svezia, nel 1998 il governo approvò una legge che richiedeva agli insegnanti, definiti “ingegneri sociali”, di contrastare i ruoli e i modelli di genere tradizionali e di consentire a bambini e bambine di sviluppare liberamente i propri interessi; dal 2012 è stato anche introdotto il plurale neutro hen, che permette di non identificare un bambino come maschio o femmina. Ora la maggior parte delle scuole per l’infanzia finanziate dallo Stato svedese, destinate ai bambini da uno a cinque anni, è gender neutral. Nel documentario Raised Without Gender, prodotto da Vice, l’insegnante di una di queste scuole spiega che «è diverso il nostro modo di pensare e il modo in cui ci rivolgiamo ai bambini: non diciamo “maschi” e “femmine”, ma “amici” o “persone”». Cambiano anche i giochi e le favole: non ci sono bambole ma animali, si esplora la natura, si costruiscono cose, ci si diverte tutti insieme, mentre i personaggi delle storie che si leggono e che si raccontano hanno genitori single, dello stesso sesso, divorziati o con nuovi compagni. Egalia è la prima scuola per l’infanzia gender neutral della Svezia, fondata a Stoccolma nel 2010 da Lotta Rajalin per lavorare sull’aspetto sociale del genere e scardinare l’idea che i maschi siano forti e le femmine sensibili e che non possano avere invece entrambe le qualità: «Non cambiamo i bambini, cambiamo il nostro modo di pensare», spiega Rajalin.
Uno studio pubblicato nel 2017 sul “Journal of Experimental Child Psychology” evidenziò che i bambini educati in questo modo non mostrano una preferenza per i compagni di gioco dello stesso genere e tendono a dare giudizi meno influenzati dagli stereotipi; la percezione del genere, invece, non cambia e potrebbe essere quindi innata.
In Italia non è stato fatto ancora un lavoro così importante nella scuola pubblica ma qualche cambiamento nella società c’è. Per esempio sta faticosamente emergendo una nuova idea di maschio e quindi di padre, compagno e figlio sul modello di cantanti, protagonisti di libri, serie tv, giovani tiktoker e influencer. Tra i più visibili c’è Fedez, il musicista marito di Chiara Ferragni, che nelle storie su Instagram, dove lo seguono quasi 14 milioni di persone tra cui molti ragazzini, si occupa dei due figli mentre la moglie gira il mondo per lavoro. Fedez incoraggia il maschio, Leone, a cucinare e a spazzare per gioco: «ho un figlio di tre anni che gioca con le bambole e questa cosa non mi desta alcun tipo di turbamento e non desterebbe nessun turbamento in me nemmeno se un giorno dovesse decidere di truccarsi o mettersi il rossetto, perché mio figlio ha diritto di esprimersi come meglio crede», ha precisato una volta sempre su Instagram. Tra i suoi follower c’è anche il figlio decenne del mio compagno che un giorno, vedendomi indecisa se acquistare l’ennesimo abitino smaccatamente da maschio per sua sorella, ha alzato gli occhi dal tablet e ha tagliato corto, dicendomi «vabbè, ma tanto cosa cambia, no?».