Giocare con la Filosofia
Articolo a cura dei Ludosofici
Che cosa intendiamo per Filosofia? E, soprattutto, che cos’è la filosofia con i bambini?
Sono domande che ci poniamo sempre e che sempre ci faremo, ma non abbiamo una risposta definitiva, e mai ce l’avremo. In effetti, definire che cosa sia la filosofia è estremamente difficile e, allo stesso modo, è quasi impossibile farlo per la filosofia con i bambini. Tuttavia, ci piace pensare a quest’ultima come a un viaggio: un percorso che compiamo insieme ai più piccoli – ma non per loro. Prendendo in prestito le parole di Chiara Guidi, nel fare filosofia con le bambine e i bambini siamo noi a imparare qualcosa di nuovo, a ottenere uno sguardo nuovo:
Bambino, insegnami a vedere lo spazio che ho apparecchiato per te. Insegnami a compiere quell’esperienza che muta la forma delle cose pur restando identica a se stessa. Bambino, insegnami a vedere! Per questo apparecchio lo spazio e traccio un confine: per stare con te. Per chiudermi all’interno, con te.1
Non sono dunque definizioni ma suggestioni quelle che, in questi anni, hanno tracciato il senso del nostro percorso con i bambini e con le bambine.
La prima è del filosofo Giorgio Agamben che, in un’intervista, dice essere sua convinzione il fatto che
la filosofia non sia una disciplina, di cui sia possibile definire l’oggetto e i confini o, come avviene nelle università, pretendere di tracciare la storia lineare e magari progressiva. La filosofia non è una sostanza, ma un’intensità che può di colpo animare qualunque ambito: l’arte, la religione, l’economia, la poesia, il desiderio, l’amore, persino la noia. Assomiglia più a qualcosa come il vento o le nuvole o una tempesta: come queste, si produce all’improvviso, scuote, trasforma e perfino distrugge il luogo in cui si è prodotta, ma altrettanto imprevedibilmente passa e scompare.2
La seconda suggestione proviene dalla filosofa Simone Weil e riporta all’idea originaria racchiusa nella parola Filosofia, ossia l’idea che «l’intelligenza possa essere guidata solo dal desiderio».
E, infine, l’immagine proposta dal filosofo Achille Varzi, secondo cui fare filosofia significa trasformare un punto esclamativo in punto di domanda. Ed è proprio questo segno grafico a permetterci il passaggio alla dimensione dell’ascolto, in cui
ascoltare significa far sentire all’altro il valore delle sue parole. Sentirsi ascoltati fa sentire di avere un luogo, un luogo dove dar voce anche al proprio sentire più intimo, ai propri timori e alle proprie angosce, ai desideri e agli aneliti.3
È a partire da queste suggestioni che impostiamo il nostro lavoro di ricerca con le bambine e i bambini, consapevoli che fare filosofia sia un grande gioco della vertigine, nel senso che non dà certezze, ma pone solo domande che generano, a loro volta, nuove domande in un percorso mai concluso e finito.
Tra i vantaggi che ci dà la filosofia c’è il poter fronteggiare uno dei problemi principali del nostro tempo, ossia la necessità di un pensiero adatto a raccogliere «la sfida della complessità del reale, in grado di cogliere i legami, le implicazioni e le interazioni reciproche di cui siamo fatti e in cui siamo immersi»4.
La postura filosofica, fondata costituzionalmente sul dubbio, ci prepara alla grande verità a cui ci riporta la frase di Euripide:
«L’atteso non si compie, e all’inatteso un dio apre le porte».
Il pensiero complesso, che sta alla base della ricerca filosofica, come scrive Timothy Morton in Come un’ombra dal futuro, è aperto, multidimensionale, costruttivo, problematico, non concluso, in grado di fare i conti con l’incertezza e la pluralità dell’esperienza, con il variare dei modelli simbolici culturali; un modello creativo, multidirezionale, antidogmatico. Da solo, però, il pensiero critico non è sufficiente, in quanto ci condannerebbe a una visione cinica e priva di una via d’uscita, incapace di costruire e in grado solo di distruggere. Per questo motivo è necessario aggiungere il potere dell’immaginazione che da sempre nella storia della filosofia è stato essenziale, tanto che i grandi filosofi del passato hanno provato a fare proprio questo: coniugare l’istanza narrativa insieme con quella argomentativa, presentare modelli nuovi di mondo, di società, di umanità, facendo sì che la filosofia diventasse vero motore di cambiamento. Gianni Rodari afferma che una storia può nascere solo dall’incontro/scontro di binomi fantastici, dall’accostamento di concetti diversi e talvolta opposti. A ben vedere, questo è anche il principio della dialettica filosofica: il pensiero si crea facendo interagire dei concetti che sembrano incompatibili, come l’identità e il divenire.
Queste sono alcune delle riflessioni da cui siamo partiti quando ci siamo soffermati su quello che sarebbe dovuto essere il nostro contributo, a partire da quello che è il nostro approccio, basato sulla domanda come strumento di educazione alla cittadinanza e alla partecipazione. A partire da questa rinnovata consapevolezza, vogliamo mettere ancora di più al centro della ricerca educativa queste parole: confine, margine, bordo, soglia. Più siamo in bilico e più lo stupore ci coglie, permettendoci di andare oltre quella familiarità delle cose che ci impedisce di vederle per davvero. Sembra che più siamo scomodi e più ci accorgiamo di quello che ci circonda. Allora perché non portare questa scomodità in ogni percorso di ricerca e di comunità educativa, con lo scopo di connettere, tessere, cucire sguardi altri e diversi attorno a un tema, una parola? Perché non provare dei ribaltamenti, provare a uscire dalla nostra visione e adottarne altre, mettersi insieme per costruire nuove comunità fondate sul bisogno comune di immaginare?
Tornando all’inizio, sembra proprio che siano i bambini e le bambine a costringerci a uscire dalla nostra comfort zone, che ci inchioda alla nostra staticità e miopia, perché, prendendo ancora in prestito le parole di Chiara Guidi, «i bambini non sono “carini” e la loro capacità di giudizio può far crollare le idee più stabili di una messa in scena», o di qualsiasi altro contesto, compreso quello educativo in cui vengono concepiti, purtroppo, come destinatari e non come co-registi al pari degli altri attori adulti.
Per concludere, quindi, per provare ad abbandonare la nostra autoreferenzialità e centralità adulta quando impostiamo qualsiasi tipo di progettazione educativa, utile potrebbe essere proprio il vivere maggiormente il contesto della soglia, perché sarà proprio lì che vivremo esperienze davvero originarie che ci daranno la possibilità di adottare uno sguardo inclusivo e aperto grazie al quale sviluppare un senso di responsabilità educativa diffusa.