Corpi straordinari
Intervista a Delfina Stella
Prima di addentrarci nel racconto del progetto che abbiamo svolto insieme e che porta proprio il nome del tema protagonista di questo mese di FarFarFare, vorrei chiederti qualcosa che riguarda proprio quello che fai e che sei: qual è la differenza tra l’essere ballerina e l’essere danzatrice?
I due termini sono a volte interscambiabili, altre no. Credo che Munari possa aiutarci ad approfondire la questione.
La ballerina è una persona che lavora con la danza e che aderisce in maniera più o meno radicale agli studi del balletto classico, rifacendosi a un codice fortemente definito ed elaborato, che ha una valenza storica indipendente. La danzatrice, invece, nel dedicarsi alla danza come mestiere, ricerca nuovi codici, non prestabiliti, e altri modi di elaborare il movimento, che, come il corpo, è convinta essere in continuo cambiamento.
Proprio a partire dal movimento del corpo nello spazio abbiamo costruito un progetto che abbiamo declinato in due diverse esperienze: a Mantova con Se Diventi Farfalla in occasione di Mantova Playground e a Milano con Soglie. In entrambi i casi, che hanno coinvolto le Scuole dell’Infanzia e, a Milano, anche il Nido d’Infanzia, abbiamo ricercato ed esplorato il corpo e il movimento visti come un linguaggio comune, capace di unire bambini e adulti al di là delle barriere culturali e sociali. Vuoi raccontarci i progetti sulla base di quella che è stata la tua esperienza?
L’idea che ha generato entrambe le progettualità, confluite poi nella creazione di un gioco, è nata proprio dalla volontà di elaborare un percorso che sapesse mettere la danza al centro di un’esperienza di condivisione con le scuole.
Per prima cosa abbiamo pensato a come creare uno spazio per lanciare il proprio messaggio al mondo attraverso i linguaggi del corpo: un messaggio, perciò, non necessariamente verbale, ma che si dispiega proprio grazie all’essenza stessa di un corpo in movimento. Pensare lo spazio vuol dire porre l’attenzione su una determinata qualità della relazione, con l’ambiente e, in generale, con l’altro da sé.
In ciascuna delle età coinvolte, abbiamo riscontrato la necessità di partire da quello che abbiamo e che siamo, e, per questo, abbiamo deciso di lavorare sulle impronte del corpo. In questo modo, possiamo conoscere la parte più concreta di noi stessi in un modo che sia al tempo stesso individuale, creativo, collettivo e compositivo. Da qui, da quello che c’è ed è visibile, si discende poi a scoprire cosa c’è dentro ciascuno di noi.
A questa prima parte laboratoriale è seguito un secondo momento, che ha avuto come obiettivo la ricomposizione di tutte le tracce, visibili e invisibili, in una creazione collettiva riutilizzabile attraverso processi di gioco.
Durante gli incontri è emerso un dettaglio molto interessante: la relazione col proprio corpo e con l’altro da sé è vissuta in modo molto differente e non può essere data per scontata in nessun caso, nemmeno, per esempio, in un rapporto originario come quello tra madre e figlio. Secondo te, esistono degli strumenti che permettono di andare oltre le differenze culturali mettendo il corpo e il movimento al centro della relazione?
Ci sono due aspetti che mi piacerebbe approfondire.
Da un lato, c’è il gioco, che possiamo descrivere come una “perdita di tempo”: una dimensione temporale sospesa, dove si fa finta di essere qualcun altro, in cui si creano delle relazioni nuove e di cui è necessario accettare le condizioni. Il nostro laboratorio, ovvero il nostro gioco, svolto nel contesto della scuola, ha previsto uno scambio di ruoli rispetto alla norma, perché la relazione con il bambino o la bambina è demandata a una figura diversa da quella genitoriale.
Dall’altra parte, c’è la nostra disabitudine a pensarci corpo. Capita spessissimo che la prima reazione alle attività di movimento che io propongo sia un concreto mettere le mani avanti arricchito da giustificazioni verbali del tipo “ma io non l’ho mai fatto”, “non sono bravo”, “sono scoordinato”, “non so andare a tempo…”, etc. Quello che allora dico io è che già il mettere le mani avanti è un movimento, un gesto bellissimo che io raccolto e da cui parto. In generale, il lavoro iniziale di creazione di relazione, soprattutto con i più piccoli, parte da ciò che già c’è: anziché proporre troppo io, accolgo e raccolgo quello che già viene fatto spontaneamente, lo esagero e dimostro che la danza può nascere anche solo e semplicemente dal porre attenzione a una cosa piccola, che esploriamo e a cui regaliamo altri significati.
La mia soluzione, dunque, è quella di mettere le persone in un contesto di attenzione, calma, lentezza e sospensione, dove il corpo possa riacquistare la sua dimensione originaria di base da cui lanciare l’elaborazione di altro da sé. Del resto, se ci pensiamo, anche la conoscenza cerebrale può essere ricondotta a un movimento corporeo, poiché è il cervello che permette quel turbinio di pensieri, a sua volta originato e mescolato alla percezione.
Come è stata vissuta la relazione con le insegnanti che, a loro volta, hanno lavorato in questa dimensione?
Le insegnanti sono delle guerriere, capaci di reagire a qualunque situazione. La nostra proposta ha avuto, come spesso accade a quelle attività che si intrecciano al loro lavoro su lunga durata, la caratteristica della brevità ed è arrivata in modo estremamente diretto. L’idea era quella di coinvolgerle in un lavoro che le favorisse nel raccogliere materiali ed esperienze condivise con i bambini. È stato fondamentale aprire con loro un dialogo che mettesse in luce i punti in comune tra quello che loro quotidianamente propongono e quello che io avevo intenzione di proporre: solo così abbiamo potuto condividere un obiettivo sin dall’inizio. Non è un caso, infatti, che la proposta è stata ripensata, adattata e spinta da una parte o dall’altra a seconda delle diverse scuole in cui abbiamo operato.
Il coinvolgimento delle insegnanti, se efficace, porta inevitabilmente a un coinvolgimento delle bambine e dei bambini. Per questo, in progetti come il nostro, impegnarsi in una relazione con le insegnanti non è che un punto di forza, la base necessaria anche per far loro capire quanto determinati strumenti, seppure scoperti in occasioni speciali, possono entrare nella quotidianità. Riconoscere la differenza e la permeabilità tra ordinario e straordinario non è forse un bel modo di esplorare la soglia?
E dimmi: concretamente qual è lo scarto tra il quotidiano e lo straordinario?
Quando mi chiedono che cos’è la danza, io rispondo che esiste nel passaggio tra una cosa e l’altra. Se pensiamo alla danza come a un insieme di passi o di azioni, ciò che importa e che costituisce l’atto del danzare è proprio la connessione tra gli uni e gli altri, che si compone del coinvolgimento, dell’emozione e della relazione con chi ti sta guardando: sono tutti questi elementi che fanno la ricetta.
La differenza tra quotidiano e straordinario è simile. L’atto richiesto dal gioco di entrare sul tappeto e lanciare al mondo il proprio messaggio creando sul momento la propria danza è straordinario: nella composizione istantanea a cui dai vita, metti tutto te stesso, perché in quel gesto c’è qualcosa che ti mette in connessione con il te stesso del passato, con le tracce che hai fatto, con i tuoi compagni e con quella mappa. Lo spazio della creazione della danza diventa a quel punto uno sfondo che integra il contesto educativo più generale: un elemento speciale che si staglia e rafforza il contesto ordinario, dando origine a un fertile punto di soglia.
Vuoi raccontarci, più nel dettaglio, in che cosa è consistito il laboratorio e il gioco che è nato a partire da lì? Credo sia interessante scoprirlo perché il gioco stesso è un esempio dell’idea di soglia che stiamo esplorando: un elemento co-progettato, che estende al di fuori dell’istante il momento fondamentale ma finito del laboratorio e resta alle insegnanti, pronto ad arricchirsi di nuove esperienze, pensieri e significati. Proprio come una porta che, quando apri, non sai quale paesaggio ti mostrerà…
La prima parola che mi viene in mente per descrivere tutto questo processo è “esperimento”: è così che mi sono sentita, vedendo come tante persone mettessero ciascuna una goccia dopo l’altra fino a vederle esplodere in qualcosa che non mi sarei mai immaginata.
È vero, si tratta di qualcosa che abbiamo visto nascere e che abbiamo dovuto lasciare. Ma l’idea era proprio questa, dall’inizio del laboratorio. Nella nostra esplorazione e ricerca del movimento, nella creazione delle tracce, l’obiettivo non era quello di ottenere un risultato finito, ma di generare un segno che potesse trasformarsi e dare origine a qualcosa di nuovo. Già la sola osservazione fatta insieme ai bambini di una di queste sagome avviava un nuovo processo: cos’altro può essere il disegno di questa parte del corpo?, che cosa mi ricorda questa gamba?, etc.
L’approccio è stato sin dall’inizio quello di pensare a qualcosa di non finito, proponendo il corpo stesso come qualcosa di non finito, che apre ad altro. Abbiamo esplorato il corpo nella sua connessione ad esperienze di movimento consapevoli, ma anche inconsapevoli, lasciate al caso e al puro divertimento. E abbiamo realizzato le tracce, a loro volta generatrici di nuovi processi.
Tutto questo è racchiuso concretamente nel tappeto, su cui le sagome sono ricomposte come qualcosa di nuovo: una mappa che permette di riconoscere un nuovo percorso, dove le tracce non disegnano più un corpi perfettamente riconoscibili.
Il tappeto, di per sé, ci riporta allo schema corporeo, diverso dal sé corporeo. Ha perciò un suo valore indipendente, ma, in quanto gioco, ha reso necessarie delle regole semplici e chiare, che potessero fare del gioco un’esperienza autofruibile. Ecco perché abbiamo realizzato le ruote, molto semplici e, grazie ai disegni di Pietro Corraini, molto divertenti alla vista e capaci di stimolare l’immaginazione del movimento. Nell’ideare le ruote, da un punto di vista pratico, abbiamo ragionato sulle componenti del movimento, ovvero le parti del corpo e le relative azioni possibili, sul modo di cercare le azioni, indicato dai disegni di Pietro e, in una terza ruota, sui possibili imprevisti che caratterizzano un’azione: la velocità, le pause, i colori (le tracce hanno colori diversi). Ecco, dunque, che il tappeto racconta proprio il corpo come soglia.