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L’ozio creativo

Intervista a Paolo Pileri

1.

Fino a qualche mese fa, la parola lentezza generava quasi paura: eravamo tutti talmente abituati a correre per stare al passo con il mondo intorno a noi che anche il solo pensiero di andare controcorrente era impossibile. Improvvisamente un virus ci ha costretto a fronteggiare l’impensabile. Immaginando di fare un salto nel futuro, magari nell’estate del 2022, la parola lentezza, secondo te, avrà acquisito nuove connotazioni? O, più semplicemente, quali connotazioni ti piacerebbe avesse acquisito?

Durante gli arresti domiciliari impostici da COVID19 abbiamo scoperto non solo che odiamo star fermi, ma che in fondo in fondo, se lo liberi, è ancora forte il desiderio dei movimenti brevi e lenti appena fuori casa. D’incanto non abbiamo più avuto bisogno di tutto ciò che era velocità. Ma abbiamo avuto vitale necessità del suo contrario: uscire, passeggiare, stare. Piazze ampie e sgombre, marciapiedi larghi e disponibili, aree verdi vicino casa e sentieri nelle campagne periurbane sono diventati dei materiali ambiti sui quali si imprimeva la nostra richiesta di buona vita al punto da allarmare i sindaci che subito li hanno chiusi a chiave, temendo che li avremmo presi d’assalto (chissà se hanno capito che la città degli spazi aperti pubblici è un tema politico gigantesco). Improvvisamente le città, spogliate delle auto, si sono rivelate più belle nella loro nudità che nella schizofrenia in cui le vestivamo. La struggente nostalgia dei luoghi della lentezza ci dà lo slancio per battere i pugni sul tavolo e dire che la lentezza è un diritto per tutti e pure un bene comune. Questo è il punto che ci sta a cuore. Non è il capriccio di un manipolo di fissati che vuole a tutti i costi muoversi a piedi in città o fare una vacanza in bicicletta, ma è una necessità umana se non diamo seguito alla quale, perdiamo equilibrio e senso dell’orientamento. Il lockdown ci ha mostrato che vivevamo in una normalità ‘sballata’ dove la velocità era la norma sociale prevalente e dove ti senti in colpa se rallenti, se ti fermi, se non sei al passo del più veloce.

Inaspettatamente, invece, abbiamo scoperto la lentezza. Non so se le scintille di chiarezza di quei giorni daranno fuoco alla paglia di nuove abitudini civili e politiche, ma ovviamente lo speriamo e lo chiediamo. Dall’esperienza pazzesca di una pandemia non ci aspettiamo qualche selfie in più o che quattro o cinque di noi cambino, ma che si imposti un cambio di rotta per cambiare tutti assieme. Altrimenti a che cosa è servita tanta sofferenza? Si tratta di elaborare quei benefici, mutandoli in norma sociale. E si potrebbe proprio iniziare dicendo che la lentezza è un diritto e che è un grave errore occuparsi così tanto di velocità. Trascurare la lentezza come progetto culturale è un errore grave per il progetto di città e di territorio. Nell’estate 2022 vorrei vedere genitori che salutano i loro bimbi sulla porta di casa, perché andranno a scuola a piedi e da soli lungo marciapiedi larghi e belli. Vorrei vedere 10, 20 volte la lunghezza dei percorsi ciclabili esistenti ora nelle città. Vorrei vedere camminanti su e giù per le nostre vie medioevali e tanta gente che va in bicicletta in vacanza. Ma tutto questo ha bisogno di una presa in carico politica da parte di chi ha la responsabilità della vita dei cittadini. Sono loro il nostro cruccio. Sono loro che devono invitare i cittadini a cambiare stile di movimento. Sono loro che devono chiarirci che la normalità da cui arrivavamo non era normalità. Sono loro che possono farci rallentare dando spazio a nuove idee e nuove economie, percependole di serie A come tutte le altre. E noi abbiamo la responsabilità di domandare e darci da fare nel rendere contagioso il cambiamento in cui dobbiamo credere. Altrimenti al 2022 saremo ancora in coda chiusi nella nostra auto, con il tachimetro che porta scritto 220, illusi che presto sfrecceremo. Ma per andare dove?

2.

Come cambia il paesaggio a seconda della velocità con cui lo si percorre?

Oltre i 25 km/h tutto ti sfugge di mano. Gli oggetti si impastano nello sfondo in cui sono. Nulla si fissa nella memoria. E se nulla si fissa nella memoria, si ferma il processo di apprendimento. Semplice. Senza rendercene conto, iniziamo a distaccarci dalla vita delle cose. Un pioppo accanto a un cippo non ci dice più nulla se gli sfrecciamo accanto. La facciata in mattoni di una cascina non regala più bellezza. Iniziamo a non accorgerci più della punteggiatura di cui è fatto il paesaggio.

Una punteggiatura che sostiene il discorso di cittadinanza, perché noi siamo il paesaggio che c’è là fuori. Quando si corre a 130 o a 300 km/h, quel che vediamo fuori sono soltanto chiazze di colore, come direbbe Aldous Huxley. Anonime chiazze di colore che non riescono a dirci dove siamo e cosa c’è là fuori. Sotto i 25 km/h invece il paesaggio ci salta addosso e ci ritroviamo. Per lo Stato diviene quindi imperativo garantire ai cittadini di poter praticare la lentezza per lunghe tratte e per giorni, perché vuol dire prendersi cura di loro, tenerli vigili ed educare in continuo degli alfieri della bellezza che si faranno tutori del paesaggio perché lo hanno conosciuto nei minimi particolari. Al contrario lasciare che pratichino solo la velocità dell’auto o del treno AV, significa dissociarli. E poi sarà molto più dura difendere la bellezza molecolare e diffusa che ci sta attorno e fuori dalle città, se la gente non può conoscerla più. E spero che non sia questo il sogno proibito della prossima politica.

3.

In un articolo hai scritto che non serve a nulla la bellezza se non ce ne prendiamo cura, se non la rispettiamo, spesso mettendo da parte la retorica del compromesso. Quali strumenti possiamo mettere in campo per, innanzitutto, imparare a vedere questa bellezza che ci circonda e, in un secondo momento, prendercene cura?

Come ho scritto sopra, incoraggiare l’andamento lento capendo che è una strategia per migliorare i cittadini e renderli consapevoli della bellezza è una straordinaria opera di tutela permanente del territorio. Tra l’altro a basso costo e alta resa per lo Stato e le Regioni, perché un sentiero o una ciclabile costano assai meno di una strada. La concretezza e la gradevolezza di un viaggio a piedi o in bici ottengono tanti risultati positivi perché usano la leggerezza e lo svago come materiali di apprendimento. Non sempre e non tutti abbiamo voglia di leggere un saggio sul paesaggio. E questo non deve scandalizzarci. Proprio perché lo sappiamo dovremmo ampliare i registri di comunicazione e di apprendimento capendo che pedalare o camminare è un modo di parlare ai cittadini, di metterli in relazione tra loro e tra loro e l’ambiente. Purtroppo invece spesso il pensiero comune e, soprattutto, la superficialità della cultura politica vedono nel cicloturismo qualcosa di poco conto e di nicchia o, peggio, qualcosa da asservire alle logiche usuranti del marketing turistico. C’è molto da fare per spiegare che è ben altro e deve essere innanzitutto ben altro. Non scoraggiamoci: non vale mai la pena rinunciare a domandare, persino quando si intuiscono le risposte negative. Domandare lentezza è nostra facoltà. 

4.

In un’intervista il maestro e pedagogo Mario Lodi si augurava per il duemila di attuare il progetto di un atelier dell’ozio creativo. Tu che forma daresti a questo atelier?

Ozio creativo è una formula meravigliosa. Innanzitutto è un invito a tornare padroni del proprio tempo e non servi di una scansione frenetica, recentemente ancor più frenetica per via delle varie app tecnologiche che pretendono di gestire l’agenda del nostro tempo come vogliono loro. La forma di quell’atelier che suggerirei è tutta vocata alla gradevolezza. Deve piacere decidere di regalarsi dell’ozio. Quindi gli darei la forma di una passeggiata, di una pedalata, di una pagaiata all’aperto. Sono forme che usano gesti creativi di per sé. Ma essendosi negli anni assottigliate le ragioni del ‘farsi una passeggiata’ senza finalizzarla a un acquisto, un prodotto, un risultato, ovvero senza mercificarla, dobbiamo in qualche modo ricostruire gli argomenti che fanno da polpa a un frutto di cui è rimasto a mala pena il nocciolo. Bellissimo se allora iniziamo a inventarci forme narrative delicate e belle (non invasive) che accompagnano il camminante a riconquistare il senso di quel che vede e sente. Camminare e pedalare sono sempre attività che mettono in gioco fortemente il nostro corpo e i nostri sensi. Ed è molto bello questo perché si schiudono nuovi canali di apprendimento che si erano rattrappiti. Faccio un esempio. Se avessimo una pavimentazione di una ciclabile decorata da un artista con leggerezza e gusto, semplicemente per incuriosirci su un particolare del paesaggio che stiamo attraversando, il nostro sguardo si incuriosirebbe e impareremmo. La pratica di quell’ozio si arricchirebbe di ulteriore materia che a sua volta andrebbe a muovere la fantasia. Combinare arte a lentezza è una formula magica: nulla ci passerebbe più accanto con indifferenza. Senza esagerare, però. Perché dobbiamo anche tornare a prender confidenza con il linguaggio che il paesaggio usa da secoli, senza intermediazioni umane.


Paolo Pileri docente di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, è membro di gruppi di ricerca nazionali e internazionali e consulente scientifico di ministeri, enti pubblici, fondazioni e amministrazioni locali. Tiene corsi sia alla Scuola di Architettura sia a quella di Ingegneria del Politecnico di Milano. L’inclusione del tema del suolo e delle questioni ambientali, ecologiche e paesaggistiche nella pianificazione territoriale e urbanistica è da sempre il suo àmbito di ricerca. È ideatore e responsabile scientifico di VENTO, un progetto di territorio attraverso una dorsale cicloturistica tra Venezia e Torino lungo il Po (www.progetto.vento.polimi.it). Autore di oltre 200 tra articoli e libri sulla pianificazione urbanistica e ambientale e la mobilità sostenibile. Su Altreconomia cura la rubrica “Piano terra” ed è autore dei libri “Che cosa c’è sotto” e -con Matilde Casa- “Il suolo sopra tutto”.

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