Intervista al Museo Omero
Da dove nasce la nostra conoscenza del mondo?
Nel corso dei secoli, i filosofi hanno dibattuto a lungo per cercare di rispondere a questa domanda. C’era chi sosteneva che il punto di partenza obbligato fossero le idee già presenti nelle menti umane e chi invece individuava nell’esperienza l’origine della nostra comprensione della realtà. C’era poi un tormentato interrogarsi sull’effettiva affidabilità dei nostri sensi, che, anche quando considerati imprescindibili nell’atto di rapportarsi al mondo esterno, si temeva potessero ingannare. In particolare, si è sempre identificato nella vista, così vicina al mondo astratto delle idee, anche etimologicamente, il senso più nobile, più intellettuale; forse, per certi aspetti, più umano.
Noi, però, quando ci relazioniamo al mondo, mettiamo in gioco tutta la complessità che ci contraddistingue. La nostra conoscenza nasce così: in un’unione di pensiero ed esperienza, che coinvolge tutti i sensi, nessuno escluso, perché ciascuno sa aprirci le porte di una realtà che va scoperta in ogni sua sfaccettatura.
«Nella nostra tradizione culturale, almeno occidentale, quasi sempre la conoscenza e ciò che dà la conoscenza, l’apprendimento, l’ikasi, è correlato con la vista: “è evidente” quando è evidente, cioè si vede, “vedi?”, “non vedi?”: in inglese, in molte lingue vedere e conoscere sono la stessa cosa. E anche in lingua basca, ikasi significa “apprendere” e ikusi significa “vedere”.
Dico che è curioso perché per esempio in spagnolo, come credo in italiano, il sapere si rifà a sapore, cioè al senso del gusto. Dico che è curioso perché né la vista né il sapore sono fondamentali per l’apprendimento; c’è solo un senso senza il quale è possibile l’apprendimento, ed è il tatto. Il tatto, tra tutti i sensi, è quello più legato alla conoscenza. Tutti sappiamo che i ciechi possono sviluppare un’attività intellettuale straordinaria, la sordità forse pone qualche problema in più per la conoscenza, ma il tatto è fondamentale. Però è curioso questo spostamento culturale, che dà importanza al vedere e al sapere e non al tatto, che è la cosa veramente fondamentale.»
La vista ha un indiscusso vantaggio sul tatto, cioè l’immediatezza. La vista è un processo che permette di riconoscere istantaneamente l’oggetto preso in esame. Il tatto opera soltanto nel tempo. Il contatto istantaneo può fornire indicazioni sul materiale, ma per poter riconoscere l’oggetto il tatto ha bisogno di tempo. Viviamo in una società fatta di immagini, che fa dell’immediatezza la propria forza comunicativa. Basta pensare alla predominanza che ha l’immagine visiva su Social come Instagram. La rete ha fatto sì che la rapidità della vista sia fondamentale. In questo mondo, un senso lento come il tatto, che necessita di tempo per analizzare un oggetto e riconoscere ciò che ha di fronte, non può che apparire come una fonte di conoscenza secondaria. A ciò si aggiunge il fatto che, nel corso dei secoli, il tatto è stato, in un certo senso, ostracizzato, in quanto legato all’idea di sporcarsi e sporcare: si è sempre avvertita la necessità di proteggere tanto le mani dalla contaminazione quanto gli oggetti intorno a noi dal rischio di essere contaminati. Tutto questo è anche un prodotto della tradizione platonico-cristiana: se, per Platone, l’idea è la visione e pensare equivale a vedere le idee, il Cristianesimo accentua ulteriormente la contrapposizione tra spirito e materia. Da una simile prospettiva il tatto, il senso più materiale, non può che uscirne mortificato.
Diciamo che noi, come Museo Omero, ci siamo dovuti porre questa domanda per forza di cose, perché il nostro è un museo tattile: il senso del tatto deve sempre andare a integrare quello della vista, quindi questi approcci in teoria si devono unire. Inizierei raccontando ciò che abbiamo fatto nel nostro museo. Quando abbiamo potuto riaprire, non abbiamo voluto rinunciare al “toccare”, quindi non abbiamo cercato esperienze alternative; piuttosto, ci siamo impegnati per farlo in totale sicurezza. Fornendo igienizzante e guanti a tutti i visitatori, non li abbiamo privati dell’esperienza del toccare le sculture. Allo stesso modo, non abbiamo sospeso i nostri laboratori, che ruotano intorno al senso del tatto e prevedono l’uso di materiali polimaterici o dell’argilla: ci siamo attrezzati affinché ogni partecipante ricevesse il proprio kit personale, così che gli fosse possibile toccare, utilizzare i vari materiali, sentire le diverse texture e consistenze, percepire il duro e il morbido, il caldo e il freddo. In questo modo, l’esperienza del tatto è sicura e allontana il rischio del contagio, che getta un velo di paura sul senso con cui desideriamo e crediamo sia importante lavorare.
Al di fuori del museo, però, la faccenda diventa più difficile. Viviamo in un momento in cui la stretta di mano, l’abbracciarsi, il darsi un semplice bacio sulla guancia, tutti gesti che compivamo senza quasi accorgercene, ci sono proibiti. È strano e doloroso dovervi rinunciare, ma per il momento ci sentiamo di dire che sono regole che vanno rispettate. Di sicuro, però, ora più che mai siamo certi che quest’affettività, ovvero questa necessità di toccare, è insita in noi esseri umani. Inoltre, la lentezza che questo periodo ci ha fatto riscoprire e in qualche modo desiderare getta una nuova luce sull’importanza delle nostre mani e sulla loro capacità di vedere le cose: rispetto agli occhi, le mani vedono le cose lentamente. È qualcosa di cui non dovremmo dimenticarci.
I bambini sono naturalmente portati a toccare: il fatto di allungare le mani, di portare gli oggetti alla bocca, sono tutti gesti che, se ci pensiamo, un bambino compie istintivamente proprio per conoscere il mondo intorno a lui. D’altro canto, proprio i bambini sono le prime vittime del noto rimprovero che invita a “non toccare”, a “guardare senza toccare”, etc.
In ogni caso, ci sono tanti giochi, tante piccole esperienze, che nel corso degli anni abbiamo sperimentato anche qui in museo, pensate apposta per allenare questo senso. Ho in mente, per esempio, tutte le attività che permettono di imparare a distinguere il peso degli oggetti, le loro texture, il caldo dal freddo, il ruvido dal liscio… Qui in museo ci piace adottare una modalità particolare, ovvero quella che più che di toccare parla dell’“accarezzare”. Ai bambini che partecipano ai laboratori – molto spesso impazienti di sapere che cosa si farà – chiediamo di riscoprire la lentezza della carezza, dello sfiorarsi la guancia lentamente, la propria come quella del compagno, utilizzando solo la punta delle dita. Ci si dà il tempo di percepire la superficie, di ciò che si sta toccando: è qualcosa che pare scontato, ma non lo è. Questa lentezza è qualcosa che ci aiuta, perché favorisce la riflessione: ci si dà proprio il tempo di concentrarsi su ciò che si sta toccando e sull’azione che si sta compiendo, anche dell’accarezzare stesso, che è un toccare particolare, perché accompagnato da una delicatezza, da un’emozione, da un gesto di affetto per la persona che stiamo accarezzando in quel momento.
In effetti, i bambini molto piccoli hanno nel tatto la loro fonte di conoscenza: conoscono toccando, portando gli oggetti alla bocca; la vista stessa nei neonati si affina col tempo. Più piccoli siamo, più l’importanza del tatto appare evidente.
Per rispondere alla tua domanda, vorrei leggere un estratto del manifesto del tattilismo di Filippo Tommaso Marinetti, che dice: “Mentre gli occhi e le voci si comunicano le loro essenze, i tatti di due individui non si comunicano quasi nulla nei loro urti, intrecci e sfregamenti. Da ciò la necessità di trasformare la stretta di mano, il bacio e l’accoppiamento in trasmissioni continue del pensiero. Ho cominciato col sottoporre il mio tatto a una cura intensiva, localizzando i fenomeni confusi della velocità e del pensiero su diversi punti del mio corpo e particolarmente sul palmo delle mani”. Secondo Marinetti è fondamentale riscoprire il valore e il senso del tatto, che è un senso che possediamo tutti e che usiamo tutti i giorni, anche se a volte inconsapevolmente. Non ci soffermiamo sulle sensazioni che il tatto in realtà ci può fornire, ci può comunicare. Questo senso è un senso che deve essere allenato, che va allenato, per diventare un autentico strumento di comunicazione e di conoscenza. Il tatto non serve solo per prendere e afferrare, toccare, stringere qualcosa, ma in realtà le mani possono servire per diventare consapevoli di ciò che accarezzano, delle emozioni che suscitano nel toccare qualcosa. Ecco perché dobbiamo allenare il tatto, prestandovi maggiore attenzione: per imparare a cogliere la differenza che ci può essere, e l’emozione diversa che può derivarne, tra un tocco leggero e un tocco più deciso, tra la sensazione che suscita una superficie più calda e una superficie più fredda. Perché queste sono informazioni che soltanto il tatto ci può dare.
È il primo e unico Museo Tattile Statale a livello mondiale. Uno spazio senza barriere, in cui tutti possono conoscere l’arte attraverso una fruizione multisensoriale.
Il Museo Omero, con oltre 150 sculture e numerosi modelli architettonici è uno spazio non solo da vedere, ma anche da toccare.
Un museo con un’affascinante storia di fondazione e sviluppo, con operatori specializzati in grado di raccontare attraverso un approccio multisensoriale la bellezza della scultura: materia, forma, tattilità, emozione e storia.
Una istituzione che non solo colma un vuoto di giustizia sociale, ma rilancia sul piano internazionale il tema della fruizione dell’arte attraverso la multisensorialità.
Luogo di integrazione e condivisione, capace di aprire per tutti nuove prospettive di interpretazione dell’opera d’arte e al contempo garantire il diritto alla conoscenza per le persone non vedenti.
Il Museo nasce dall’idea pionieristica di Aldo Grassini e Daniela Bottegoni, instancabili viaggiatori (oltre 60 Paesi in 5 continenti), esperantisti, appassionati d’arte e non vedenti. Stanchi del divieto di toccare radicato in tutti i musei del mondo, nel 1985, di ritorno da un viaggio in Germania e dall’ennesima delusione, maturano l’idea di creare nella loro città, Ancona, un museo dove finalmente si potesse toccare. Un approccio necessario per avvicinare in forma diretta i non vedenti alla bellezza dell’arte e utile a tutti per riscoprirla in una modalità più arricchente. Dall’idea alla fondazione passano altri 8 anni: nel 1993, promosso dall’Unione Italiana dei Ciechi, viene inaugurato il Museo Omero dal Comune di Ancona con il contributo della Regione Marche. Il Museo apre con un nucleo di riproduzioni di opere classiche, fra cui la Venere di Milo; in breve tempo si aggiungono i modelli architettonici e le sculture originali contemporanee. Nel 1999 il Museo ottiene il riconoscimento da parte del Parlamento italiano e viene nominato Statale con la Legge numero 452. Nel 2012 si trasferisce alla Mole Vanvitelliana, settecentesca architettura pentagonale ideata come lazzaretto.
Sono originaria di Spoleto (PG), ma vivo nelle Marche da circa 10 anni. Ho una Laurea specialistica in Storia dell’Arte conseguita preso l’Università degli Studi di Perugia. Ho lavorato dal 2016 alle mostre temporanee organizzate dal Museo Tattile Statale Omero e dal 2018 sono entrata a far parte dello Staff dei servizi educativi del Museo.
Sono originaria di Bologna, ma vivo ad Ancona da circa 5 anni. Dopo il Diploma in Didattica dell’Arte e Mediazione culturale per il patrimonio artistico, conseguito presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, ho svolto l’anno di servizio civile al Museo Omero e dal 2017 faccio parte dello Staff dei servizi educativi del Museo.