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Accampamenti musicali

Intervista a Pino Pecorelli
(bassista e cofondatore dell’Orchestra di Piazza Vittorio)

Quando si intraprende un viaggio, a volte la meta è ben chiara, altre è sconosciuta, altre ancora quella che si aveva in mente non coincide con quella che si raggiungerà. Casi come questi ultimi sono del tutto imprevedibili e ricchi di sorprese: che cosa riserva il luogo in cui siamo approdati e che mai ci saremmo immaginati di trasformare nella nostra nuova casa?
L’Orchestra di Piazza Vittorio è un’opportunità che accoglie a braccia aperte chi si trovi a sostare, per caso o per scelta, in Italia: una tappa dinamica, un percorso artistico e culturale, che sa offrire sollievo ed entusiasmo a ogni viaggiatore, prendendolo sul serio.


L’Orchestra di Piazza Vittorio nasce in un momento in cui la paura e la chiusura stavano minando la fiducia e la ricerca di bellezza che stanno all’origine di ogni incontro, da quello più privato e intimo a quello più pubblico e culturale. Cosa racconta, invece, la vostra storia?

La premessa alla domanda che mi poni è volta al passato, ma purtroppo il presente non è diverso: anche oggi c’è chi cavalca la paura per rinnovare la costante diffidenza nei confronti del “diverso” come se fosse un pericolo drammatico per la nostra incolumità; anche oggi, quando è chiaro che un virus invisibile è decisamente più insidioso di decine di migliaia di esseri umani che, per disperazione, scelgono altre vie.
Dunque, che cosa proviamo a raccontare? Innanzitutto, c’è da dire che, nel nostro piccolo, il linguaggio che utilizziamo ci rende fortunati: la musica è un mezzo che rende possibile il confronto senza incomprensioni, è un codice che puoi apprezzare o no, ma non è interpretabile; per suonare insieme è necessario saper leggere ed eseguire più o meno le stesse note.

L’idea da cui siamo partiti era più ambiziosa del voler unire culture diverse: il nostro obiettivo è proprio quello di mettere insieme sistemi musicali diversi. 
Ciò che continua a colpire nel progetto che portiamo avanti è vedere come tutti, a prescindere dalla latitudine e dal livello culturale, quando viene meno la struttura gerarchica, interpretano il confronto con il diverso nel modo migliore possibile, cercando di far emergere il proprio talento al massimo.È chiaro: noi siamo un simbolo. Non possiamo pensare che in una fabbrica di bulloni o in un supermercato, dove ci sono altre regole professionali, possa svilupparsi la stessa dinamica. Tuttavia, abbiamo il dovere di riflettere su questo: il nostro paese è ancora oggi un luogo in cui i figli degli immigrati, prima di compiere diciott’anni, sono considerati diversi anche se sono nati in Brianza o a Roma. Il nostro tentativo è allora proprio quello di dimostrare che, come dice sempre il nostro direttore artistico Mario Tronco, mettere insieme e mescolare culture diverse produce bellezza.

Il vostro progetto, ad oggi, coinvolge le prime o le seconde generazioni?

Il mio personale percorso professionale è duplice e si muove tra prime e seconde generazioni. 
Da un lato, lavoro con l’Orchestra di Piazza Vittorio, che è composta da persone che sono nate altrove e che oggi vivono in Italia. Dall’altro, da nove anni dirigo il progetto della Piccola Orchestra di Tor Pignattara, una realtà nata a Roma e orientata sull’incontro tra tutte le sfaccettature dei figli dell’immigrazione: le seconde generazioni, i figli delle coppie miste, i figli nati in Italia degli immigrati, i figli di immigrati arrivati in Italia con i genitori, i minori non accompagnati, i rifugiati e gli italiani. È un percorso interessante che mette insieme bambini che, avendo cominciato a dodici anni, oggi ne hanno venti e o hanno deciso di fare i musicisti o, grazie all’esperienza di questo laboratorio artistico e ricreativo, hanno trovato la forza di intraprendere un qualunque altro percorso sentendosene all’altezza.
Quello dei migranti è un mondo su cui si pone l’attenzione solo da un punto di vista giuridico e burocratico, ma spesso ci si dimentica di un fattore altrettanto importante: sono famiglie che non hanno alcuna risorsa per accedere al tempo libero, fatto di corsi di chitarra, di nuoto, etc. 

È vero. E non credo nemmeno che si tratti solo di una questione di gratuità, perché capita che i musei, per esempio, siano accessibili gratuitamente e non vengano comunque frequentati. Credo si tratti più della sensazione di non essere ben accetti, del non sentirsi accolti.

È il non sentirsi all’altezza di un luogo o di una situazione, è vero. Anche noi abbiamo riscontrato, soprattutto tra i genitori, un forte disagio, un’eccessiva umiltà, come se si sentissero inadeguati a portare i propri figli. Questa è la ragione per cui, nel progetto della Piccola Orchestra di Tor Pignattara, abbiamo insistito molto, anche grazie alla presenza in équipe di uno psicologo, sull’incontro tra italiani e stranieri: proprio per cercare di scardinare l’idea secondo cui gli uni e gli altri dovrebbero fare percorsi comunque separati
C’è ancora moltissima strada da fare, però. Anche perché, con la pandemia, i riflettori si sono quasi del tutto spenti sugli immigrati.

I vostri spettacoli sono il frutto di incroci di visioni, storie e generi musicali. Diciamo che siete il punto di intersezione di nomadi in viaggio che si incontrano su un palco: ci descrivi questo “accampamento”?

“Accampamento”: è la prima volta che ci definisco così, ma non potrei essere più d’accordo. L’orchestra è proprio un accampamento di vite che si incontrano. In questi anni abbiamo assistito al mescolarsi più di cento musicisti con storie molto diverse alle spalle, provenienti da culture lontanissime, ma con punti di contatto a volte impressionanti. Ce ne sono, per esempio, tra la musica del nord dell’India e del Brasile o delle comunità rom. 
Grazie alla visione artistica di Mario Tronco e Leandro Piccioni, che hanno adattato le opere liriche che abbiamo realizzato in questi anni, siamo riusciti a mettere in scena diversi spettacoli in un linguaggio possibile e comprensibile per musicisti “nomadi” in virtù del loro approccio culturale. E il momento più felice del nostro accampamento si realizza nel confronto con il pubblico. Lo scorso 3 luglio siamo tornati per la prima su un palco per un concerto: dovendoci esibire a Cuneo, siamo partiti da Roma con un furgone ed è stato necessario un viaggio di sei ore, alla fine del quale, come è normale, non ne potevamo più l’uno dell’altro. Tuttavia, è bastato salire sul palco e in men che non si dica eravamo tutti di nuovo reciprocamente innamorati. 
Lo ripeto, e non è retorica. Dare la possibilità a quelli che noi consideriamo stranieri di esprimersi come se lo facessero a casa loro – ovviamente non a prescindere dal proprio valore, perché chi fa parte dell’Orchestra è lì in virtù del suo percorso di crescita musicale – produce sempre risultati interessanti sia per chi ascolta ma anche per noi stessi: quasi vent’anni di orchestra hanno insegnato soprattutto a noi italiani tantissime cose su cui pensavamo di essere già preparati quando non lo eravamo affatto, in termini di relazione, di confronto, di visione della società, sul ruolo della donna.Si potrebbe dire che il successo di questa esperienza è la “non tolleranza”: il fatto di essere straniero non giustifica l’eventuale ritardo alle prove, la mancanza di impegno nello studio o le assenze. I rapporti che si sviluppano nell’Orchestra sono rapporti reali, come potrebbero essere quelli tra persone nate e cresciute nello stesso palazzo e che discutono per coabitare al meglio nel loro condominio.

Nello spettacolo Il giro del mondo in ottanta minuti si mette in scena l’imbarco di un gruppo di persone che partono per un lungo e meraviglioso viaggio dalla meta sconosciuta. Il biglietto è gratuito: unica condizione per potersi imbarcare è portare con se una canzone e un solo bagaglio. Chi parte verso una meta sconosciuta cosa porta di straordinario dentro la propria valigia?

Ziad Trabelsi, storico musicista dell’Orchestra, è autore della canzone Une ile en bois, che offre lo spunto da cui si sviluppa lo spettacolo di cui parli: è da qui che è nata l’idea della zattera. Trabelsi dice sempre che il suo arrivo e la sua permanenza nell’Orchestra di Piazza Vittorio sono stati una curva del destino. È un’immagine che ancora oggi ci emoziona tanto, soprattutto se pensiamo alla sua storia: l’Italia, per lui, doveva essere solo un punto di passaggio da superare per recarsi in Francia, ma era la fine del 2001, poco dopo gli attentati dell’11 settembre, che avevano dato il via alla ricerca dei colpevoli. Uno dei ricercati si chiamava Trabelsi ed era tunisino, proprio come Ziad. A quel tempo la paura nei confronti del mondo arabo era alle stelle e si vide costretto a rimanere a casa dello zio, ad Ancona. Fu allora che Mario Tronco lo chiamò per proporgli di entrare nell’Orchestra ed ecco perché Ziad Trabelsi parla di un’improvvisa curva del destino: i suoi piani erano del tutto diversi. Era convinto che ad attenderlo ci fosse un altro viaggio e non avrebbe mai potuto prevedere che le cose sarebbero andate così. 
Tutte le storie che si possono ascoltare dai membri dell’Orchestra – soprattutto quelle dei molti sudamericani arrivati in Italia negli anni Novanta – parlano di imprevisti, di cambiamenti improvvisi. Per esempio, c’è la storia del musicista che, partito da Cuba, arriva in Austria convinto di aver raggiunto l’Australia, scappa dal gruppo con cui suona, si nasconde e viene a vivere in Italia solo dopo aver conosciuto una donna. Ascoltando le storie dei musicisti dell’Orchestra sembra che la mutevolezza continua del destino sia un tratto distintivo di chi affronta un viaggio. È proprio questa l’idea che ha ispirato tutto il percorso artistico dell’Orchestra: una cosa non è mai decisa in modo definitivo, perché le cose cambiano, si evolvono, prendono nuove forme; ogni nuovo interprete porta con sé qualcosa di nuovo che va ad aggiungersi a ciò che già c’è o a sostituirsi a ciò che se n’è andato con chi ha deciso di tornare a essere nomade lasciando l’Orchestra. L’imprevisto è il sale di un percorso musicale di gruppo. Il musicista, per crescere, deve cimentarsi con cose che non conosce e deve fare i conti con la possibilità di perdersi; anzi, deve saperlo fare.

La composizione della vostra orchestra credo sia molto simile alla composizione di molte delle classi in cui andate a fare formazione. Spesso si descrivono queste situazioni come se fossero degli esempi delle nostre società future, mentre, al contrario, sono già il nostro presente. La musica, per sua stessa natura nomade, che funzione ha nella costituzione di nuove, polifoniche ed eterogenee comunità?

È tutto verissimo: non stiamo parlando del 2050, l’Italia è già oggi strapiena di classi multietniche. In alcune scuole del mio quartiere, Tor Pignattara, molte classi hanno una minoranza di studenti italiani (diciamo così, anche se ovviamente non definire italiani questi bambini è del tutto sbagliato).
Ci capita spesso di andare nelle scuole per proporre percorsi di formazione. Molti bambini si divertono nel sentire canzoni nelle lingue dei loro genitori: ci guardano da un lato come se fossimo i loro zii, ma dall’altro come se dessimo forza a ciò che sono e fanno. Più volte è successo che, alla fine delle lezioni, dei ragazzi o delle ragazze ci raggiungessero sotto il palco per comunicarci il loro entusiasmo nell’aver realizzato che anche loro potevano studiare musica. Molte scuole hanno voluto che tornassimo. Sono sicuro che queste esperienze arricchiscono più noi di quanto non arricchiscano i bambini e le bambine. Ed è interessante scoprire che per molti musicisti dell’Orchestra l’esperienza di formazione nelle scuole è la più divertente e stimolante del loro percorso: per un musicista che ha abbandonato la sua terra veicolare le sue conoscenze suonando su un palco per dei bambini figli dei suoi connazionali e vedere la loro esaltazione è un’esperienza che non ha eguali in nessuno spettacolo nel più grande dei teatri.
È ancora presto per dirlo, ma l’anno prossimo speriamo di riuscire ad attivare un progetto analogo anche nelle carceri di Roma. Sarebbe davvero interessante dare luogo a un rapporto tra adulti, tra lo straniero che ce l’ha fatto e chi invece si è perso, e provare a offrire degli stimoli proprio con l’insegnamento della musica.


L’Orchestra di Piazza Vittorio è nata nel 2002 sulla spinta di artisti, intellettuali e operatori culturali con la volontà di valorizzare l’omonima Piazza dell’Esquilino di Roma, per antonomasia il rione multietnico della città. Oggi, grazie al contributo della Fondazione Cultura e Arte, sono resi possibili numerosi progetti ai quali teniamo particolarmente: la ricerca di nuovi musicisti, lo studio di repertori tradizionali, la creazione e la produzione di nuove musiche originali, l’approfondimento delle relazioni con le comunità d’immigrati e le strutture di accoglienza operanti in Italia, gli interventi laboratoriali nelle scuole.