Arie di famiglia
Intervista a Danilo e Attila Faravelli
A cura di Costanza Faravelli
Danilo e Attila sono nati entrambi in aprile, anche se l’uno ventitré anni prima dell’altro. Sono figli di generazioni diverse e forse è anche per questo se le loro posizioni sono spesso inconciliabili. Non poche volte mi è capitato di sentirli discutere e confrontarsi su ciò che sia o dovrebbe essere la musica, sulla possibilità di usare o meno questo termine per riferirsi a uno spettro più ampio di esperienze svolte in ambito sonoro e su che cosa possa vantare meritatamente una qualche dignità artistica.
Danilo è zio di Attila, nonché mio padre; Attila è nipote di Danilo, nonché mio cugino. Io stessa ho avuto modo di lavorare con entrambi e confrontarmi con le loro posizioni. Quest’intervista è stata ottenuta chiaramente “giocando in casa”, ma sarebbe errato pensare che si sia trattato di una semplice scelta di comodo o, viste le circostanze, di necessità. La “casa”, che in questo caso non coincide con le quattro mura domestiche, ma con una condivisa sensibilità riguardo certe questioni, era abbastanza competente e sfaccettata da risultare interessante.
Attila e Danilo hanno lo stesso cognome e punti di vista molto diversi, a tratti quasi contrari. Tuttavia, quelli che sembrano opposti spesso non sono altro che due facce della stessa medaglia: parenti, avvicendamenti, naturali evoluzioni. Non sono altro che il tempo che scorre anche in una famiglia, che in qualche modo alla musica è sempre devota.
Com’è nata la tua passione per la musica?
A Attraverso mio zio Danilo. Ho passato l’adolescenza andando alle sue conferenze sul repertorio del ‘700-’800. Tra le tantissime, me ne ricordo una serie assolutamente nerd in cui confrontava due esecuzioni della stessa sonata per pianoforte di Beethoven. Mi ha anche portato ad ascoltare diversi concerti dal vivo. Me ne ricordo bene uno in particolare: un concerto per chitarra in cui il chitarrista accordava lo strumento durante l’esecuzione, con un’abilità incredibile. Mi ricordo di essermi accorto, a un certo punto, che una signora al mio fianco aveva il respiro pesante, e il fischio del suo naso si sentiva anche mentre il chitarrista suonava. Ai tempi ascoltavo anche Death Metal, e ai concerti il volume era altissimo e azzerava tutto il resto; mi aveva colpito come un’espressione musicale potesse essere significativa anche a volume basso. Apprezzo particolarmente la dimensione acustica del suono e credo che ciò derivi dall’esperienza di ascoltare questi concerti a cui mi portava lo zio. Per dimensione acustica non intendo solo l’utilizzo di strumenti non amplificati, ma in generale, il modo in cui il suono abita lo spazio, come si diffonde e riverbera, come i materiali interagiscono in modo diretto, le direzioni da cui proviene, le distanze e le relazioni di “potere” tra i suoni.
D La mia passione per la musica è nata da due sentimenti che, nonostante appaiano contrastanti e inconciliabili, tendono di fatto ad alimentarsi vicendevolmente: l’ammirazione e l’invidia. A quindici anni avevo un compagno di classe che, anziché “ricrearsi” come tutti gli altri durante l’intervallo, “creava” melodie riempiendo di segni misteriosi un particolare quaderno che solo più tardi cominciai anch’io a definire album pentagrammato. Fui stregato dalla rapidità e disinvoltura con cui fissava per iscritto idee il cui senso mi era precluso. Odiai quel suo privilegio, feci di tutto per diventare suo amico sincero ed essere iniziato ai segreti di quella sua arcana passione.
Qual è il genere musicale che preferisci?
Ce n’è anche uno che credi ti somigli?
A Mi ricordo che una volta, anni fa, prima della diffusione capillare di internet, un venditore ha suonato alla mia porta cercando di piazzarmi un abbonamento alla sua lista di dischi per corrispondenza. Mi ha posto la domanda che faceva a tutti: “Che musica ascolti?”. Il fatto è che, prima di bussare alla mia porta, al terzo piano, gli avevo sentito fare la stessa domanda agli inquilini dei piani inferiori e tutti avevano risposto: “Un po’ di tutto”. Mi ricordo che quella risposta mi aveva fatto venire il nervoso. Pensavo, ad esempio, alle conferenze di mio zio su certe minuzie esecutive, ai suoi racconti su Bach che si faceva a piedi 200 km per andare ad ascoltare Buxtehude all’organo o a un libro che stavo leggendo di oltre 1000 pagine intitolato “Post-punk 1974-1984”, e mi sarebbe venuta voglia di rispondere a chi diceva che ascoltava un po’ di tutto: “Che cosa mi dici, ad esempio, di Duty Now For The Future dei Devo del ’79?”. Quello che voglio dire è che con i dischi ognuno ascolta un po’ di tutto perché, una volta registrato, un pezzo di Tiziano Ferro abita sullo stesso piano ontologico di un pezzo eschimese in cui due donne cantano l’una nella bocca dell’altra, fino a svenire.
Comunque, posso dirti quali esperienze di ascolto preferisco, perché non definisce un genere ma un contesto. Ultimamente sto facendo molti lavori manuali per un progetto di oggetti di design sonoro che curo. Sono operazioni noiosissime e ripetitive e in studio ho ritrovato una vecchissima radio valvolare che un amico mi aveva regalato anni fa. Ha ancora dei settaggi del dopoguerra, stranamente prende solo i canali con il segnale più potente, proprio quelli ultra commerciali. Ho iniziato ad ascoltare e apprezzare pezzi mainstream super orecchiabili da questa radio mono a valvole, perché non prende altro, perché mentre si salda sono perfetti e perché il suono di certe cose molto pompate suona benissimo in quella radio dal suono caldo. Insisto su come non si tratti tanto di apprezzare un genere, ma di stare bene in una specifica esperienza di ascolto: saldare mentre si ascolta musica commerciale da una radio mono a valvole. Un altro genere di esperienza sonora che mi piace tantissimo sono i podcast, ne ascolto centinaia. Ascolto solo quelli in inglese per allenarmi alla lingua, ma anche perché il repertorio è enorme e ce ne sono di stupendi. Mi piace tantissimo il rapporto che si costruisce con la voce parlata nell’ascoltare questi podcast, le persone suonano vicine e intime e il fatto che siano solo audio crea un’esperienza molto evocativa dal punto di vista sensoriale. So che il podcast non è un genere musicale, ma un modo specifico di organizzare i suoni che invito tutti i miei amici a esperire. Per darti una risposta più densa dal punto di vista teorico, mi interessa la musica dove il discorso sonoro è organizzato intorno alle logiche stesse del suono; mi piace la musica in cui emerge il piano di suono, di accelerazioni, di relazioni, che molta musica soffoca dietro un’organizzazione idiomatica.
D Il genere musicale che preferisco è il cosiddetto “genere classico”, tipologia che preferisco però riassumere nell’espressione “musica d’arte”. La musica che più mi somiglia, indipendentemente dal genere (visto che la si ritrova nel repertorio classico, non meno che in ambito pop, jazz, etnico ecc.), è invece quella che si è soliti qualificare mediante l’aggettivo “virtuosistica”; e ciò, nonostante intimamente mi ripugni. Soffro infatti di un’irriducibile tendenza all’egocentrismo e all’esibizionismo che reprimo a fatica e della quale segretamente mi vergogno.
Che cos’è, nella tua esperienza di studioso, il tempo nella musica?
A Tanti anni fa ho chiesto a un amico di darmi dei dischi di musica sperimentale che ritenesse fondamentali per farsi un’idea dei capolavori storici del ‘900: ai tempi non ne sapevo niente. Quando ho iniziato ad ascoltarli mi sembrava che non succedesse niente e mi annoiavo. Un giorno – mi ricordo che ero in studio a tagliuzzare al computer delle registrazioni di conferenze di medicina, un lavoro completamente meccanico -, per rendere utile quel pomeriggio, ho pensato di provare a mettere su uno dei dischi che il mio amico mi aveva prestato. In pratica, ho fatto una cosa vietatissima da tutti i fonici: ho messo su dalle stesse casse da cui usciva la voce dei medici uno di questi dischi. Mi ricordo chiaramente di una specie di scatto cognitivo in quel momento: appena ho smesso di ascoltare quella musica aspettandomi che succedesse qualcosa, ho iniziato a capirla. Avendo in primo piano le voci dei medici e in secondo piano la musica astratta, percepivo la musica come una specie di sfondo, in modo simile alla visione periferica, e all’improvviso la capivo e l’apprezzavo. Penso che certe espressioni musicali abbiano senso solo se si smette di concepire il tempo in modo teleologico e narrativo.
D Nella mia esperienza di studioso il tempo è una categoria fondamentale. Dipende infatti dal Tempo la leggibilità di ciò che analizzo e su cui elaboro i miei percorsi di pensiero. Il fatto che il mio oggetto di studio corrisponda a opere ed esperienze creative individuali o collettive definite una volta per tutte, morte, concluse ed essiccate nella dimensione del passato, mi mette al sicuro dalla fastidiosa eventualità che, vivendo, possano cambiare connotati e mutare di senso, rendendo impossibile il raggiungimento dell’agognata parola “fine” alle mie fatiche critiche e rievocative a scopo divulgativo.
Che cos’è, nella tua esperienza di compositore, il tempo nella musica?
A Un’altra pratica che trovo legata all’esperienza del tempo è andare in giro a registrare suoni. Mi capita spessissimo di accendere i microfoni, mettermi su le cuffie e rimanere incantato per decine di minuti davanti a un aspetto sonoro totalmente insignificante, come un tubo che sgocciola o un contatore elettrico che cigola. L’esperienza di mettere in primo piano, attraverso la registrazione sonora, qualcosa che in genere rimane sullo sfondo, ha la tendenza per me a rallentare il tempo, o comunque, come sopra, a sovvertire il modo più quotidiano di intendere il tempo del suono in modo teleologico.
D Nella mia esperienza di compositore, essendo io un compositore quasi del tutto inabile a eseguire ciò che crea, il tempo corrisponde alla trepidante prospettiva di attesa del momento in cui, sentendo finalmente dar forma sonora appropriata alle idee melodiche, ritmiche e armoniche da me combinate in un preteso insieme sensato e non privo di qualche attrattiva, ho modo di verificare il carattere soddisfacente, accettabile, deludente o repellente del risultato raggiunto.
Che cos’è, nella tua esperienza di ascoltatore, il tempo nella musica?
A Ascoltatore, esecutore e compositore, sono definizioni che hanno senso più che altro quando si parla di pratiche musicali molto specifiche, che molti considerano universali ma che in realtà sono solo una possibilità tra molte. Nel giro di gente che fa cose simili a quelle di cui mi occupo io, la composizione passa attraverso forme attente di ascolto e le strutture delle composizioni assomigliano più a degli assemblaggi di materiali con delle tendenze auto-organizzanti. La nostra cultura è intrisa di ilomorfismo, un termine filosofico che si riferisce alla concezione dell’azione come se si trattasse di prendere della materia grezza e insignificante dal mondo e trasformarla in strutture significative grazie alla nostra grande intelligenza, che sarebbe in grado di dare una forma alla materia disorganizzata. In realtà le cose non funzionano assolutamente in questo modo, nemmeno nelle operazioni più concettuali. I materiali hanno delle tendenze che vengono assecondate nell’atto creativo. I compositori stessi hanno delle pulsioni, una storia personale e un contesto sociale che influenza quello che interessa loro fare.
D Nella mia esperienza di ascoltatore il tempo è una sorta di inevitabile nemico, è l’ambivalente asse estetico su cui valuto intimamente la qualità di ciò che si offre al mio udito intelligente. È il tiranno che mi impedisce di fermare e cristallizzare in una sorta di “fermo immagine” il godimento in me provocato da una certa idea melodica, da una certa sequenza ritmica, da una certa combinazione armonica; è il secondino che mi impedisce di fuggire da un testo sonoro che mi annoia mortalmente.
Sapresti suggerirci delle attività o dei giochi che ci permettano di sperimentare le risposte che ci hai dato?
A Un modo semplice sarebbe uscire di casa e andare in posti all’aperto. Prima di vivere in case, per centinaia di migliaia di anni, abbiamo prevalentemente vissuto all’aperto, dove il suono ha dei comportamenti molto interessanti e non lineari: il vento muove le cose, la temperatura è instabile, il ritmo degli eventi segue logiche non umane; i suoni arrivano da vicino, ma anche da lontano. Per ascoltare occorre muoversi anziché stare seduti sul divano ad ascoltare un disco o con addosso le cuffie e credendo che, siccome il suono ci segue, il mondo sia in fondo un’emanazione della nostra testa. In questo momento si parla di continuo della necessità di stare a casa, ma mi viene da pensare che potrebbe essere utile anche stare all’aperto il più possibile, andando in posti dove non tutto è un segno umano. Non penso per forza all’Antartide o all’Amazzonia; basterebbe andare in campagna e percepire il suono come una serie complessa di interazioni tra materiali, animali, macchinari, per sentirsi immersi in qualcosa anziché concepire l’esperienza come un qualcosa che si fa da fermi in modo intenzionale con la testa.
D Ecco ciò che mi viene in mente rispetto alla possibilità di progettare giochi o attività ispirandosi ai tre precedenti punti: fare ascoltare più volte una breve musica piacevole o eccitante e verificare in quanti casi essa produca un incremento o un decremento di godimento in relazione alla somministrazione ripetuta.
Pensi che la musica meriti almeno un po’ del nostro tempo? Perché?
A Penso che il suono e la musica occupino già moltissimo del nostro tempo e della nostra attenzione, anche se non ne siamo pienamente consapevoli. C’è chi si occupa, ad esempio, del suono che fa una portiera della macchina, che pare dia un senso di sicurezza; c’è chi fa le musichette per le slot machine, perché diventi difficile staccarsene; ci sono le pubblicità, i trailer cinematografici. Siamo circondati da suoni e musica intenzionalmente costruite per esaltare aspetti della nostra esperienza. Quello che meriterebbe più tempo sarebbe esperire dei suoni non prodotti dalla mente dell’uomo e che ci riconnettano al flusso materiale ed energetico dentro cui siamo immersi e di cui ci dimentichiamo di essere un’emanazione come tante altre.
D Penso che la musica meriti gran parte del nostro tempo, se associata all’esercizio dell’intelligenza; credo infatti che, a causa dei mezzi di diffusione che le sono stati forniti da più d’un secolo a questa parte, essa se ne sia preso fin troppo, producendo come effetto deleterio un’affermazione sempre più prepotente della facoltà del puro e semplice sentire ovvero percepire a scapito di un sano ed edificante ascoltare.
Attila Faravelli è sound artist e musicista elettro-acustico. Con la sua pratica esplora le relazioni che intercorrono tra suono, spazio e corpo. I suoi lavori discografici in solo sono stati pubblicati da Senufo Editions e Die Schachtel. Ha inoltre pubblicato in duo con Andrea Belfi (Tumble) su Die Schachtel, con Nicola Ratti per Boring Machines e su Presto!? insieme all’artista Nicola Martini, con Angelica Castello, Mario De Vega, Burkhard Stangl (SQID) su Mikroton Recording. Con Enrico Malatesta e Nicola Ratti ha dato vita al trio Tilde.
Ha presentato il suo lavoro in varie istituzioni universitarie e artistiche in Europa, USA, Cina e Sud Corea. Nel 2010 ha partecipato alla XII Biennale Internazionale di Architettura di Venezia. Nel 2012 è stato il curatore italiano per il progetto Sounds of Europe. Ha curato il suono per progetti di Armin Linke e Rossella Biscotti.
Ha realizzato le musiche per progetti teatrali di Teatro Valdoca, Mariangela Gualtiero ed Ortographe.
È fondatore e curatore di Aural Tools, una serie di multipli oggetti sonori che documentano i processi stessi di produzione sonora da parte di musicisti selezionati.
Per ascoltare una composizione di Attila, clicca qui:
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Danilo Faravelli una vita professionale spesa con convinto entusiasmo sui fronti musicali dell’educazione, della divulgazione e della ricerca. Ha al proprio attivo numerose pubblicazioni di contenuto storico-musicologico (opere in volume, saggi su riviste di settore, articoli su periodici, booklets di CD…); i suoi più recenti e significativi contributi in tal senso sono le monografie Mozart a Londra e Il ciambellano e il meccanico: Mozart e gli italiani del suo tempo, apparse a Milano, tra il novembre del 2018 e il novembre del 2019, per i tipi della casa editrice Book Time; un suo ulteriore approfondimento sulla figura e sull’opera del grande Salisburghese è apparso nel 2020 con “Al ballo, se vi piace”. Cercando Mozart fra i suoi minuetto (ed. Zecchini, Varese).
Collabora come conferenziere e divulgatore musicologo con la Fondazione GOG di Genova (Giovine Orchestra Genovese) nonché con l’Associazione Musicale Kreisleriana di Milano. A Sesto San Giovanni, città in cui risiede, opera attivamente dal 2015 in seno all’Associazione Culturale Palinsesto di cui è socio fondatore e direttore artistico.
🎧 Qui puoi trovare una fiaba musicale sul piccolo Mozart scritta da Danilo e dedicata agli ascoltatori più giovani.