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Avrò cura di te

Intervista a
per il progetto SOU

Com’è nato il progetto SOU? Perché pensare a una scuola di architettura rivolta a bambine e bambini?

Il progetto SOU nasce nel 2016 all’interno del Farm Cultural Park, un centro culturale per l’arte e l’architettura di fama internazionale in cui prendono forma progetti sociali ed educativi di rigenerazione urbana. Gli ideatori e fondatori, tanto di Sou quanto di tutto il centro culturale, sono Andrea Bortoli e Florinda Saliera, una coppia di professionisti residenti a Favara, sede del Farm Cultural Park. Nel raccontarvi l’origine del progetto, perciò, mi farò portavoce della loro esperienza.

Favara è una cittadina in provincia di Agrigento. La sua capacità abitativa è di circa 92000 persone, ma gli ultimi dati Istat ne contano appena 32000. Questo perché, con il boom economico degli anni Sessanta, è stata avviata la costruzione di una quantità spropositata di immobili, la maggior parte dei quali non è mai stata terminata: ad oggi, Favara si mostra come una città piena di grandi edifici incompleti e, quindi, disabitati e inabitabili. Il progressivo abbandono è stato inevitabile, così come il conseguente stato di degrado della città. 

Il Farm Cultural Park è stato immaginato per rendere Favara un luogo più ricco di opportunità soprattutto per i più piccoli. Nel volerlo, Saliera e Bortoli hanno sicuramente pensato alle loro bambine, ma l’idea era quella di prendersi cura, in generale, del futuro della città e dei suoi abitanti. 

Dunque, venendo alla tua domanda: perché una scuola di architettura per bambine e bambini? Beh, perché è necessario iniziare da lì, se vogliamo provare a cambiare una mentalità che sembra radicata nelle nostre tradizioni e nel nostro modo di vivere. O meglio, è necessario innanzitutto mostrare ai più piccoli che cambiare, proprio grazie al loro operare e proprio davanti ai loro occhi, è possibile. È su questo punto che insiste la gran parte dei nostri laboratori.

Quando parliamo di “scuola di architettura” quello che intendiamo, in realtà, è una forma di educazione civica. Nel raccontare ai bambini l’importanza e la possibilità del cambiamento ci auguriamo che, a loro volta, loro ne parlino a casa, con le famiglie.

Concretamente, da settembre a giugno, proponiamo, con cadenza settimanale, laboratori di disegno rivolti ai bambini e alle bambine. Poi, per coinvolgere ulteriormente le famiglie ed entrare, per così dire, nelle case, organizziamo uscite e gite, a cui i genitori sono costretti a partecipare per accompagnare i figli. In questo modo, cerchiamo di costruire una comunità che lavora, riflette e agisce, per riconoscere e risolvere le problematiche della propria città.


Vorreste approfondire il legame che avete accennato tra architettura ed educazione civica? In che modo l’architettura può dare forma a nuove possibilità di società, che ancora non esistono ma che è necessario immaginare?

Noi teniamo moltissimo a dire che il nostro obiettivo non è quello di formare dei “piccoli architetti”, così come non vogliamo instillare nei bambini l’idea di diventare degli architetti, dei designer o degli artisti. Ovviamente, se così sarà, ben venga, ma non è questo il nostro scopo. La Scuola di Architettura si propone di dare loro una visione alternativa rispetto a quello che vedono tutti i giorni a Favara (e il nostro modello potrebbe aprirsi ad altri numerosissimi contesti cittadini). 

L’Educazione Civica riguarda il luogo in cui si nasce, si cresce, si vive. Ci invita a prenderci cura della nostra città. E in questo somiglia moltissimo all’architettura, che non coincide unicamente con la costruzione di un edificio. L’architettura è proprio tutto quello che c’è intorno a noi: l’arredamento urbano, i parcheggi per le macchine, i parchi, le panchine, gli spazi pubblici, le aree pedonali, e come immaginiamo tutto questo. 

L’architettura, per noi, è un pretesto per raccontare tante altre cose. E devo dire che i bambini recepiscono perfettamente questo nostro intento.
Nel primo incontro ci domandiamo proprio che cosa sia l’architettura e le prime risposte la definiscono come “gli edifici”, “la scuola”, ma poi arriva il momento in cui le si riconosce anche un aspetto emotivo: perché costruisco quella casa in quel modo? Perché, per esempio, esistono i grattacieli? Perché desidero e decido di occupare lo spazio proprio così? E immediatamente risulta chiara l’importanza di una casa, di uno spazio verde, di un prato, di un albero… 

L’architettura è Educazione Civica perché ha a che fare con la cura e con il rispetto dello spazio.


Ci raccontate un laboratorio o un’azione pratica che proponete ai bambini e che potremmo replicare anche noi?

Il primo incontro, come dicevamo, parte dalla domanda che chiede che cosa sia l’architettura. Dopo la discussione c’è una parte pratica, più laboratoriale, in cui proponiamo ai bambini di costruire, con materiali da riciclo, il modellino di una piccola città o di un quartiere: un luogo, insomma, in cui possano immedesimarsi, all’interno del quale riescano a immaginarsi. Così, costruiscono vialetti, collocano parchi, le aree verdi, etc.

Un altro laboratorio riguarda l’idea di provare a uscire dal contesto più noto e più familiare per loro, ovvero la scuola, per esplorare altri angoli della città. Siamo andati in piazza e, a partire da lì, abbiamo fatto una passeggiata multando tutte le macchine che erano parcheggiate in modo abusivo (uno dei principali problemi di Favara è che non esistono parcheggi e le macchine vengono lasciate ovunque). In questo modo, sperimentiamo con i bambini il fatto che esistono dei posti in cui si può stare e dei posti in cui non si può stare: se una macchina parcheggia sul marciapiede obbliga il pedone a camminare sulla strada e questo non è corretto. Sono piccole azioni, con cui però cerchiamo di mettere in discussione aspetti della città che loro sono abituati a vedere e, quindi, a sopportare, finendo poi per non farci più caso. 


Siete d’accordo nel dire che l’architettura è educazione civica anche perché correlata alla possibilità del vuoto, dell’assenza, del silenzio… Insomma, allo spazio in quanto tale?

Assolutamente, e anche su questo concetto abbiamo sviluppato dei laboratori. Nel centro storico di Favara, proprio a causa del progressivo abbandono della città da parte delle persone, si verifica un fenomeno triste: gli edifici più vecchi, non subendo alcuna manutenzione, sono decadenti e a volte crollano, creando dei vuoti urbani. Questi vuoti, che potrebbero presentare opportunità, non vengono mai valorizzati. Non penso a chissà cosa: un parcheggio o uno spazio verde sarebbero sufficienti. Invece, la realtà è che si trasformano presto in discariche a cielo aperto. 

Questa situazione, per essere affrontata, ha proprio bisogno di un cambio di mentalità. Ecco, noi cerchiamo di far capire ai bambini il valore e il significato dello spazio pubblico, che non è di nessuno, ma di tutti. Il fatto che quel vuoto non sia parte di casa mia non deve portarmi a disinteressarmene, a trattarlo come uno spazio usa e getta, che può anche rimanere incompleto. Di fronte a una città che sembra totalmente lasciata andare, invitiamo i bambini a immaginare un’alternativa, li incoraggiamo dicendo loro che cambiare atteggiamento, rinunciare all’incuria e ricercare, con affetto, il buon gusto, è possibile.


Cura, amore, affetto sono concetti che mi riportano al tema a cui ci stiamo dedicando in questo momento: il Nido. Credo che il mondo naturale possa esserci d’ispirazione per potenziare il nostro aver cura, fare con amore, fare per l’altro nei confronti dei luoghi in cui viviamo.

Il nido, nel senso di un luogo dove si può stare bene, è proprio alla base della nostra idea di creare insieme, di costruire una comunità. Tanto nel progetto della SOU quanto, più in generale, nel Farm Cultural Park, cerchiamo di creare un ambiente confortevole in cui le persone abbiano voglia di venire, che vogliano visitare e in cui desiderino stare e, di conseguenza, creare.

“Cura” è una parola magica e bisogna imparare a usarla nel modo giusto. Così come la parola “empatia”, ovvero il saper capire fin dove ci possiamo e dobbiamo spingere. Ma anche il concetto di “tempo” è fondamentale: i processi a cui diamo il via sono lentissimi ed è necessario appellarsi a tutta la calma e la pazienza possibili; d’altro canto, è importante allenarsi a essere lungimiranti per diventare consapevoli della portata sul domani delle nostre azioni e del nostro comportamento odierno: se non mi prendo cura di un edificio, questo crollerà e sarà inabitabile; se riempio un vuoto urbano dopo l’altro di immondizia, a lungo andare le strade si riempiranno di spazzatura e sarà impossibile attraversarle.


Un’ultima curiosità. All’inizio avete accennato alle gite in cui coinvolgete non solo i bambini, ma anche le loro famiglie. Volete dirci di più?

Dal 2016 a oggi ci siamo rese conto dell’importanza fondamentale di coinvolgere i genitori nell’intero processo, in tutte le esperienze fatte dai bambini. Questo sia perché è bello e non scontato che i bambini e i loro genitori facciano qualcosa insieme sia perché, come dicevamo prima, anche gli adulti sono i destinatari del nostro messaggio.

Le gite fanno quindi da sempre parte del nostro programma. Possono essere uscite nella stessa Favara o in altre città, al di fuori di Agrigento, dove andiamo a visitare altre organizzazioni che svolgono un lavoro simile al nostro. Tra Catania, Palermo e Siracusa ci sono moltissime iniziative affini alla nostra ed è prezioso andare a conoscerle. Infine, a fine anno, è previsto un viaggio al di fuori della Regione Sicilia, che può essere in Italia o all’estero: nel tempo i bambini sono stati ad Amsterdam, a Londra, a Parigi e, più di una volta, alla Biennale di Venezia. Quest’anno, molto probabilmente, andremo a Copenhagen. Il filo rosso di tutte queste esplorazioni è la riflessioni su tematiche sociali e urbane e anche quest’anno, come sempre, andremo a vedere strutture architettoniche, mostre, parchi, etc. Avremo il nostro programma ben definito e, soprattutto, avremo i bambini con le loro famiglie.


E nelle uscite a Favara, invece, che cosa fate?

Nel periodo post-pandemico abbiamo approntato un format specifico che ben si adattava all’invito a stare all’aperto. Abbiamo spostato la SOU all’esterno e abbiamo creato il format del safari urbano. L’idea era quella di girare per la città, con particolare attenzione alle zone del centro storico, dove l’abbandono e il degrado sono evidenti. Questo per cercare di capire insieme che cosa allontana, che cosa fa sì che una città diventi inospitale: l’assenza di cura e della bellezza che quella, inevitabilmente, porta con sé.

D’altra parte, siamo andati anche alla ricerca degli spazi verdi della città, che, è vero, non sono molti, ma vanno ricordati e valorizzati, non dimenticati e trascurati!