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Conti che contano

Intervista a Donata Columbro

La realtà che ci circonda è piena zeppa di dati. O meglio, è un terreno fertile per la loro nascita, pronta a scatenarsi nel momento stesso in cui qualcuno decida di intravederli, contarli e raccoglierli. E non c’è angolo di realtà che, osservato dalla giusta prospettiva, non possa dare vita a una collezione di dati. Conviene, dunque, tenere lo sguardo attento, allenato, disposto a stupirsi ed esigente nel desiderio di comprendere sempre di più.
Come si può entrare più in confidenza con il misterioso e affascinante mondo dei dati? A darci qualche suggerimento è Donata Columbro, autrice di Ti spiego il dato.


Partiamo dalle basi. Che cos’è un dato? A che cosa serve?

Un dato è tutto quello che si può contare e classificare: è questa la spiegazione più semplice che possiamo darne. 
Un dato può essere qualcosa che succede nel mondo: un evento, una vittoria a una partita di calcio, una nascita; può essere qualcosa di intangibile, come un’emozione; può essere un fenomeno che esiste in natura: la pioggia, il corso d’acqua che costituisce un fiume. Un dato è tutto quello che possiamo osservare con lenti quantitative e che è possibile far rientrare in determinate categorie. 
I dati non esistono in natura: compaiono solo dopo che qualcuno ha deciso di contare o di misurare un fenomeno e di analizzarlo e osservarlo alla luce di diverse variabili, temporali o geografiche, per esempio, e di farlo in modo continuativo o una volta sola. 

La raccolta dei dati si compone quindi del momento del conteggio o misurazione e di quello della classificazione e dà luogo a informazioni che possono essere d’aiuto a ciascuno di noi nel prendere decisioni importanti per la propria vita personale o a un’amministrazione pubblica che si cura della collettività. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, raccogliere dati è un’operazione che ci riguarda molto da vicino: calcolando, per esempio, quanti biscotti sono mangiati in casa mia ogni mattina a colazione, posso decidere di comprarne più confezioni, evitando così che finiscano e che qualcuno della famiglia rimanga a bocca asciutta.


C’è un aspetto del tuo lavoro che trovo molto affascinante. Spesso l’attività del contare è considerata noiosa, ripetitiva – quasi meccanica -, ma ascoltando le tue parole appare come un gesto demiurgico e generativo, in qualche modo molto creativo.

Contare è ovviamente un’attività che può rivelarsi ripetitiva e meccanica. Il punto, piuttosto, è capire perché nella ripetizione non possa esserci creatività. Io non credo sia così. 
Nella raccolta dei dati, l’aspetto più interessante non è nei valori che confermano le nostre aspettative, ma in quelli che ci mostrano un’eccezione, perché ci permettono di capire qualcosa di più rispetto al contesto che stiamo osservando
Il mio approccio è un’unione tra quello che Giorgia Lupi ha definito “umanesimo dei dati”, ovvero l’idea secondo cui i dati non sono infallibili e portano serendipità, proprio perché ci sono persone dietro di essi, e la proposta di Hans Rosling, che, intrecciando il fatto – fact – alla mindfulness, ha elaborato la factfulness, ovvero l’attitudine a osservare il mondo attraverso i dati: grazie ad essi e alle informazioni che ne derivano, sono più consapevole, attenuo i miei pregiudizi e le mie emozioni nel leggere quello che succede intorno a me. 
Entrambi gli approcci a cui mi ispiro dicono qualcosa di estremamente importante sulla natura dei dati, che, se da un lato ci spiegano il mondo, dall’altro riguardano ciascuno di noi, la nostra vita quotidiana. I dati mi servono per avere un punto fermo da cui partire e da cui cominciare a pormi delle domande.


Scrivi che: «I dati e la loro visualizzazione permettono di rendere visibili situazioni che non si vivono direttamente». In che modo i dati potrebbero diventare uno strumento di lotta per dare voce anche a situazioni svantaggiate?

La visualizzazione è il risultato finale di un processo che, a partire dai dati, intende raccontare una storia e mettere in luce un certo fenomeno
Il punto di partenza è una domanda su ciò che voglio indagare e a cui proviamo a rispondere attraverso i dati. Rispetto a un altro tipo di strumento narrativo, i dati mi consentono di raccogliere tutta una serie di situazioni che ritengo collegate a una singola esperienza, così da mettere in fila e sommare una molteplicità di casi che, a quel punto, diventa difficile ignorare. 
Mi spiego con un esempio. L’Osservatorio Balcani e Caucaso e Sheldon.studio hanno analizzato il numero di vie che, nei capoluoghi italiani, sono intitolate alle donne. Passeggiando per le nostre città, possiamo avere la sensazione che la maggior parte delle vie che attraversiamo portino il nome di uomini: possiamo non averci mai fatto troppo caso o magari l’abbiamo notato e normalizzato in virtù dei nostri studi storici, che, tra le figure che hanno contribuito a cambiare il mondo, ci propongono una quasi totalità di personaggi maschili. Insomma, per un motivo o per l’altro, la nostra singola esperienza di cittadini o turisti che leggono i nomi delle vie delle città che attraversano finisce per essere dimenticata in fretta. Questo, però, solo fino al momento in cui non ci poniamo delle domande: sono la sola ad aver fatto questa esperienza? Ciò che noto in questa città vale solo qui o potrebbe accadere anche altrove? Ciò che ho osservato qui è la normalità o un’eccezione? Se a seguito di queste domande si comincia a contare e ad attivare una raccolta dati, vediamo come si possa dare luce a situazioni che fino ad allora non ci saremmo immaginati. 
Il progetto di cui stiamo parlando si chiama Mapping diversity e, a seguito di una raccolta dati, racconta che solo il 6,6% delle strade dei capoluoghi italiani sono intitolate a donne. È un numero molto basso, che basta di per sé a darci un’informazione più chiara sullo stato di cose nel nostro paese in merito alla diversità di genere nella toponomastica stradale. Ancora più di un numero, però, è la visualizzazione che mi permette di comprendere la portata della mia osservazione: nel colorare le vie di una città in modo diverso a seconda che siano dedicate a donne o uomini, basta un colpo d’occhio per rendersi conto della situazione.
La visualizzazione è una rappresentazione dei dati che raccogliamo e ci permette di vedere quello che, magari, prima facevamo più fatica a percepire. È frutto di una o più scelte per raccontare quello che ho scoperto tramite la mia raccolta e analisi dei dati. 
C’è un progetto che, anche se vecchio, cito sempre: Migrant Files è stata la prima rappresentazione, la prima data visualisation su una mappa, delle morti dei migranti nel Mediterraneo. I numeri dei morti venivano raccolti da un giornalista, Gabriele Del Grande, che sul suo blog riportava tutti i titoli dei giornali che riferivano i naufragi nel Mediterraneo. A partire da qui, altri due giornalisti, che sono anche tra i fondatori di Dataninja, Alessio Cimarelli e Andrea Castelmauro, hanno deciso di visualizzare il cimitero del Mediterraneo: quei puntini su una mappa hanno reso visibile, più percepibile, qualcosa che prima era “solo” un elenco di nomi e numeri e che, per quanto fossi un attento lettore dei giornali, difficilmente mi dava la reale percezione del fatto che, nel 2014, 18mila persone avevano perso la vita. 
Una visualizzazione è più immediata e d’impatto. Ci porta a percepire l’effettiva grandezza di un fenomeno, la sua entità. Ed è uno strumento utile in tantissimi contesti, da quelli più politici o di attualità a quelli, seguendo l’esempio che facevo all’inizio, casalinghi, personali e quotidiani. La visualizzazione, inoltre, non è solo bidimensionale, perché può essere realizzata direttamente con gli oggetti: accumulando o impilando le confezioni di biscotti che mangiamo a colazione posso percepire molto più chiaramente l’entità del consumo quotidiano o settimanale della mia famiglia.


Sei la responsabile del Dataninja School: perchè a tuo avviso è così fondamentale allenare i ragazzi e con loro, si spera, anche gli insegnanti alla lettura dei dati?

Tramite il progetto Open the box sulla Dataninja School abbiamo aperto un percorso gratuito per insegnanti proprio sulla data literacy. Forniamo gli strumenti per imparare a leggere il dato e il grafico, cosa che viene molto prima del saper costruire data set o grafici o del saper utilizzare un particolare software.
Crediamo sia importantissimo lavorare con le scuole, anche per far emergere il fatto che i dati non hanno a che fare solo con la matematica o la statistica, ma si ritrovano in tutte le materie, dalla storia alla geografia, fino a tutti i contesti in cui può rivelarsi utile e interessante l’utilizzo di una mappa. C’è, per esempio, un bellissimo lavoro di un designer che ha analizzato il modo di scrivere suo e di scrittori famosi a partire dall’uso che fanno della punteggiatura. 
I dati sono dove meno te lo aspetti: capire che possiamo utilizzarli per comprendere la nostra realtà ci può aiutare anche in futuro a saper leggere e interpretare le notizie, i proclami, la propaganda fatta di numeri e di opinioni, che è bene saper distinguere. Imparare a leggere i dati significa anche arrivare a interrogare le fonti, a farsi ulteriori domande. E non è mai troppo presto per imparare a farlo. La nostra esperienza ci vede attivi nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, ma nulla vieta di proporre qualche attività anche alla scuola primaria, anzi!


Se dovessimo proporre una breve attività proprio a dei bambini della scuola elementare, che cosa suggeriresti?
Credo potrebbe essere interessante proporre un’attività di raccolta dati partendo dall’osservazione del loro ambiente: la classe, la cameretta o la casa. 
Innanzitutto bisogna stabilire la domanda da cui partire, ovvero decidere che cosa contare o misurare: il numero dei quaderni che utilizzo a scuola o dei giocattoli che possiedo, le misure dei mobili della mia stanza o della distanza dal centro della mia camera a tutti i posti che preferisco in casa mia.
Trovata la domanda d’indagine, devo approfondire la ricerca scegliendo le caratteristiche, ovvero le variabili, di ciò che voglio contare. Per esempio, se ho deciso di considerare i miei giocattoli, potrò considerarne il colore, la dimensione, la pesantezza, il momento della giornata in cui li utilizzo, la tipologia, se l’ho acquistato o l’ho costruito io, se ci gioco da solo o con altre persone, etc. Insomma, a partire dall’oggetto che ho scelto di indagare devo farmi venire in mente sempre più domande. Di queste, infine, ne sceglierò due o tre.
Inizia a questo punto la raccolta dati, che si realizza ammucchiando i giocattoli secondo insiemi, sottoinsiemi e intersezioni e contando gli elementi che avrò così radunato
Una volta fatto il calcolo, posso decidere di rappresentare i miei giocattoli. Posso farlo fotografando i mucchietti che ho raccolto, metterli in colonna, disegnarli. Posso poi interrogarmi sulle emozioni che provo di fronte al risultato di questa raccolta e chiedermi se il calcolo svolto mi abbia portato a scoprire anche qualcosa di me che non sapevo, se mi abbia in qualche modo sorpreso o abbia confermato le mie aspettative. Infine, sarebbe bello discuterne in classe.

Donata Columbro è giornalista e digital strategist, si occupa prevalentemente di tecnologia, attivismo online e Africa. Fa parte di Dataninja.it, collabora con Change.org e scrive di Africa e cooperazione internazionale per Vita. Si è laureata in Relazioni Internazionali e Tutela dei Diritti Umani all’Università di Torino. Dal 2010 al 2014 è stata social media manager e formatrice per il progetto ONG.2.0. Ha collaborato inoltre con testate italiane, tra cui Internazionale, Wired Italia, Nova24 e La Stampa. È coautrice dell’ebook ONG 2.0. Strumenti e strategie social. Nel 2021 ha pubblicato con QuintoQuarto il libro Ti spiego il dato.