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Faccia a faccia

Laboratorio a cura dei Ludosofici

Perché fermarsi a guardare un volto? E come il disegno può diventare strumento di accesso, di comprensione e di scoperta?

Non c’è bambina o bambino che non affronti, nel corso del suo percorso scolastico, il tema del ritratto e dell’autoritratto. Ma perché? Noi abbiamo trovato tre testi molto suggestivi che provano a indagare tra le pieghe di questo atto, tanto comune quanto epifanico.

Quando incontriamo gli insegnanti, dopo aver dato loro il libretto qui allegato, leggiamo questo passo di Emmanuel Lévinas, filosofo lituano-francese che pone al centro della sua ricerca la dimensione etica dell’essere, sostenendo che ciò che caratterizza l’uomo è la sua “inevitabile possibilità” di rapportarsi all’Altro.

Il volto è significazione, e significazione senza contesto. Intendo cioè affermare che nella rettitudine del suo volto altri non è che un personaggio in un contesto. Di solito si è un personaggio: si è professore alla Sorbona, vice-presidente del Consiglio di Stato, figlio di un tale, tutto ciò che si trova nel passaporto, il modo di vestirsi e di presentarsi. E ogni significazione, nel senso corrente del termine, è relativa a un tale contesto: il senso di qualcosa sta nella sua relazione a qualcos’altro. Il volto, al contrario, è senso da solo: tu sei tu.

Si può quindi dire che il volto non è visto: è ciò che non può diventare un contenuto afferrabile dal pensiero. Il volto è l’incontenibile, conduce al di là, e per questo la sua significazione lo fa uscire dall’essere in quanto correlativo di un sapere.

E. Lévinas, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Città aperta edizioni.

Il volto è qui presentato come infinito che eccede non solo lo sguardo, ma anche il pensiero. In quest’ottica, allora, l’oggetto del ritratto diventa, come scrive Jean-Luc Nancy, il soggetto assoluto (Il ritratto e il suo sguardo, Raffello Cortina Editore, p.11). Come fare, quindi, ad accostarsi a esso inteso come soglia verso l’universo infinito rappresentato dall’altra persona?

Se la mente da sola non riesce a varcare questa soglia, perché allora non provare a farsi aiutare dalla mano e dal gesto che questa compie sul foglio nel momento in cui traccia un segno? Perché non scegliere il disegno come strumento per rapportarsi all’altro? A tal proposito John Berger in Sul disegno scrive:

Per l’artista disegnare è scoprire. Non si tratta di una semplice formula, è letteralmente vero. È appunto l’atto di disegnare che costringe l’artista a guardare l’oggetto che ha di fronte, a sezionarlo con gli occhi della mente e a rimetterlo insieme; o, se disegna a memoria, che lo costringe a dragare la propria mente, a scoprire il contenuto della propria riserva di osservazioni passate. […] Ogni conferma o smentita vi porta più vicini all’oggetto, finché non siete, per così dire, al suo interno: i contorni che avete disegnato non indicano più il margine di quel che avete visto, ma il margine di quel che siete diventati.

Ecco: un laboratorio semplicissimo che però viene caricato, grazie alle riflessioni di due filosofi, di nuovi significati e possibilità.

Un’attività semplice, il ritratto, fatta e rifatta usando tutte le tecniche possibili, che non smette di sollevare questioni, porre dubbi, rinnovarsi… nella ricerca tanto dell’altro quanto di se stessi, visto che ogni ritratto è anche un autoritratto.