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Gioco libero

Intervista a Michela Dezzani

Che cosa rappresentano i laboratori ispirati al metodo di Bruno Munari?

È indubbio che il mondo di Bruno Munari, un mondo meraviglioso che celebra proprio l’aspetto giocoso della vita e del fare arte, è accessibile a tutti. È altrettanto vero, però, che la sua proposta non può essere scissa dall’interpretazione che, continuamente, ne fanno, da un lato, gli adulti e, dall’altro, i bambini. È importante sottolineare il ruolo di questi ultimi, perché i primi destinatari dei laboratori di Munari erano i bambini degli anni Settanta, che avevano strumenti e un sistema scolastico di riferimento completamente diversi da oggi.
Dunque, che cosa non è cambiato nel corso del tempo? L’accesso allo strumento del laboratorio, che era facile e immediato allora come adesso. Cambia, invece, l’interpretazione che ne danno gli adulti, ovvero gli operatori che mano a mano imparano a fare i laboratori e che, nel proporli, mettono qualcosa di sé, del loro tempo e della loro cultura. E cambia, soprattutto, la risposta della vera protagonista di questi laboratori, ovvero l’infanzia. A testimoniare ciò che dico, a riprova di questa realtà che al contempo si conserva e si trasforma, basta guardare a un laboratorio che ho proposto di recente.

Dunque, il laboratorio è uno strumento potentissimo, proprio perché, col passare del tempo, devi svilupparlo in modo diverso. È come se, a partire da un microcosmo fatto di uno spazio e di dialogo, riuscisse a vedere il cambiamento e a ragionare su quella che è la complessità.

Sono assolutamente d’accordo.
Tempo fa, alcuni amici mi domandavano se non fossi ormai stufa di riproporre ai bambini il laboratorio di manipolazione della carta, ma la mia risposta non poteva che essere negativa: per quante volte l’abbia fatto, quel laboratorio non è mai stato uguale. In questo caso, per esempio, la carta è il medium, il punto fermo invariabile, ma poi quello che accade cambia in conseguenza del luogo, del gruppo di bambini, dello spazio e anche di me stessa.

Come sai, la parola chiave di questo mese è Gioco. Hai già detto che i laboratori ispirati al metodo Bruno Munari sono particolarmente familiari con questo concetto. Ma, facendo un passo indietro, se ti chiedessi di darmi una definizione della parola “gioco”, cosa risponderesti?

Immagino che la risposta che ti darò adesso sia diversa da quella che ti darei domani, ma è proprio questo il bello: mettersi nelle condizioni di provare esercizi impossibili, come trovare la definizione di una parola che maneggi continuamente e che, proprio per questo, continua a trasformarsi; ti pone di fronte all’essenza delle cose, credo.
Ora come ora, ti direi che il gioco è un rapporto spensierato con il mondo; spensierato, ma complesso. Io ho avuto la fortuna di crescere in campagna, un luogo che mi ha regalato la possibilità (e la necessità) di inventarmi da zero tutti i giochi della mia infanzia: non avevo materiali precostituiti per giocare, dovevo andarli a cercare, costruirli. Per quanto riguarda la mia formazione, però, l’esperienza più forte di gioco l’ho fatta quando ho conosciuto Bruno Munari, perché è stato allora che ho davvero imparato a instaurare con la realtà un rapporto ludico. Questo ti porta a riconsiderare la realtà come qualcosa di cui sei parte e che puoi cambiare in ogni momento, non come un oggetto già costituito e chiuso fuori di te. E, a dire il vero, è forse proprio qui che sta il succo del divertimento: divertente significa proprio “cambiare strada”, concedersi la flessibilità dell’errare, dell’inaspettato.

E, sempre nel contesto dei laboratori ispirati al metodo di Bruno Munari, l’idea di gioco è cambiata?

Io credo che Munari, consapevole degli elementi variabili nei suoi laboratori, abbia inserito un filtro destinato a rimanere costante: la preparazione del tavolo attorno al quale si dispongono tutti gli attori e che ti consente di presentare i materiali, diversi a seconda dell’esperienza che fai. I bambini, a prescindere dal contesto spazio-temporale, amano molto trovare questo tavolo, che è lì, davanti a loro, senza essere spiegato a parole, ma che offre già tutta una serie di stimoli visivi e materiali su cui hanno l’opportunità di farsi un’idea molto personale e non mediata dall’operatore.
Riflettendo su questo elemento costante, ma anche sulla particolare realtà che stiamo vivendo adesso, mi rendo conto che i laboratori come quelli ispirati al metodo di Bruno Munari possono essere raccontati come una sorta di gioco di libertà, perché partecipare a un’attività simile ti costringe, in senso buono, a compiere continuamente delle scelte. Senza accorgertene, sei immesso in un processo in cui, senza che nessuno ti influenzi, devi decidere da dove cominciare o quanto tempo soffermarti su una cosa piuttosto che un’altra. Questa, a mio avviso, è libertà, ovvero l’arte di imparare a organizzarsi la propria vita. E posso dire di più. Quando mi capita la fortuna di lavorare con bambini per più anni di seguito, osservo che, compiuti i 9/10 anni, tengono a prepararlo loro, il tavolo. Non ti spiegano la ragione delle loro scelte, proprio come faceva Munari, ma osservando ciò che prendono e dispongono sul tavolo, intuisci quali idee si muovono nella loro mente.
Ecco, credo che i laboratori ispirati al metodo di Bruno Munari siano essenzialmente un’educazione alla libertà: sarebbe bello approfondire questo tema, anche a livello di ricerca.

È un bel modo di giocare alla libertà dei bambini. Credi sia cambiato nel tempo?

No, questo no. I laboratori pensati da Bruno Munari si ancorano a delle strutture conoscitive tipiche dell’umano, trasversali a ogni epoca. A riprova di questo, c’è il fatto che, durante le attività, i bambini non sentono la mancanza della tecnologia, cosa ormai rarissima. Ma il punto è che la mente e le mani si sentono appagate nel corso del laboratorio.
Con questo non voglio dire che a Munari non piacerebbero i giochi tecnologici: è un vero peccato non aver visto cosa ci avrebbe fatto. Ispirandoci a quello che fece con la fotocopiatrice, stiamo provando a inventarci delle cose. Ultimamente stiamo lavorando a un progetto che si intitola Tra analogico e digitale. Stazioni creative, analogiche e digitali, in cui tentiamo di tradurre esperienze analogiche nel digitale. Ci proviamo, ma non possiamo dire che questa operazione sia frutto della mente di Bruno Munari.

Del resto, però, non abbiamo sin dall’inizio parlato di interpretazione? Mi sembra che questa operazione consenta al seme piantato anni fa di esplorare e sfondare il terreno in tanti modi possibili. Non è forse questo l’unico modo per garantire lunga vita a quel seme?

Sì. E poi devo confessarti che in questo processo ti aiutano molto i bambini stessi. Per esempio, una delle prime attività che abbiamo proposto prevedeva la comparazione tra la penna capacitiva e strumenti analogici come la matita e il pennarello. Loro hanno trovato moltissime soluzioni, prima fra tutte l’idea che mentre nella penna capacitiva hai tutto, gli strumenti analogici sono per forza tanti e diversi.
Credo che questo atteggiamento tipico dei bambini, così naturale e così diverso dal nostro, nei confronti degli oggetti tecnologici dipenda dal fatto di essere nati mentre erano già diffusi. Noi adulti tendiamo ad approcciare le nuove tecnologie come contenuti, mentre loro le guardano come strumenti, al pari di quelle analogiche.
Uno degli aspetti più interessanti nell’attivare i laboratori è che, preparando tutto prima, all’arrivo dei giovani destinatari noi operatori facciamo un passo indietro e ci limitiamo a osservare cosa succede, a raccogliere il materiale in vista delle esperienze future, a vedere il modo di interagire dei bambini. Quando c’è di mezzo la tecnologia, i più piccoli ti mostrano come usarla come uno strumento anziché un fine. D’altra parte, però, come dicevo prima, mi sorprende anche che, nei laboratori totalmente analogici, nessuno di loro senta la mancanza di tecnologia, nonostante i bambini siano ormai generalmente esposti più a schermi che a fogli di carta.

Come Ludosofici, proponiamo di smontare i concetti come fossero scatole, di prendere le domande e smontarle in tanti piccoli pezzetti. Nel farlo – e nel dirlo nel corso delle nostre formazioni – riprendiamo una frase di Munari, che diceva che i bambini non rompono i giocattoli, ma li smontano per vedere come funzionano. Ho sempre amato questa immagine, che riflette perfettamente lo spirito dell’esplorazione e della scoperta.

È una frase bellissima: ha ispirato anche me e, sicuramente, continuerà a farlo, perché anche nei laboratori l’arte si smonta e si rimonta, no?
C’è anche un altro aspetto, però. Munari credeva in un gioco in autonomia fatto dal bambino. Quando vennero presentati, i giochi fatti con la Danese vennero distribuiti sul pavimento di una sala e ai bambini era stata lasciata totale libertà di aprire le scatole, senza doversi rifare ad alcuna istruzione: le istruzioni sono insite in quello che veniva loro offerto.
Nei laboratori, si passa più attraverso il fare delle mani, ma alla base c’è un pensiero, che potremmo definire di tipo filosofico e che sicuramente Munari condivideva: per preparare un laboratorio devi smontare il concetto, l’idea e il progetto. Solo così potrà essere accessibile a tanti, in questo gioco della libertà.


Michela Dezzani
La mia più che una professione è una grande passione.
Ricercatrice, formatrice e consulente nella ideazione di progetti e nella formazione di adulti e bambini. Ho conosciuto e collaborato con Bruno Munari a partire dagli anni ’90. Socia fondatrice dell’Ass.Bruno Munari e docente dei Master metodo Bruno Munari®. Master in Epistemologia Operativa® conseguito presso il Centro di Psicologia Culturale di Ginevra. Dal 1989 sono relatrice in diversi convegni a lui dedicati. Progetto laboratori e corsi di formazione in diverse istituzioni in Italia e all’estero. Ho collaborato con diverse istituzioni museali: Ara Pacis, Explora, Muba, Mart, Museo Diocesano, Pinacoteca di Brera, Palazzo Reale, Triennale.
Nel 2008/09/10 sono stata invitata dallo Shiodome Creative Center di Tokyo per un progetto di formazione al pensiero progettuale creativo con adulti e bambini. Sono stata consulente per aziende come Bracco, Ferrero, Fujitsu, Gelsia, Lago, Zucchi ecc…
A partire dal 2000 ho fondato e avviato laboratori permanenti, metodo Bruno Munari, in molte scuole italiane e internazionali interessate all’educazione progettuale e creativa. Ho collaborato con la il FabLab Open Dot e con la Fondazione Montessori. Ho ideato, finanziato dalla Fondazione Cariplo, “Tutti i colori del bianco” un itinerario laboratoriale per i bambini
delle comunità Sikh della Lomellina. Per EXPO ho studiato il progetto ORTOGRAFICO, laboratori per adulti e bambini dedicati al cibo esplorato con tutti i sensi tranne il gusto.
Organizzo mostre per bambini, che nascono dalle mie collezioni personali di giochi didattici e libri: DOPPIO GIOCO, tra progetto didattico e oggetto di design, che espone giochi e giocattoli progettati da designer italiani e stranieri; FANTASIA AL POTERE, espone l’intera collana di libri intitolata TANTI BAMBINI, diretta da B. Munari. Nel 2020 nasce un nuovo progetto formativo metodo Bruno Munari intitolato “Lo strumento modifica chi lo usa” che approfondisce la relazione che instauriamo con gli strumenti grafici e artistici che usiamo fin da quando
siamo piccoli. Gli strumenti parlano un loro linguaggio e ogni strumento racchiude la sua personalità, il suo modo di essere, quel carattere che non lo fa confondere con altri strumenti. Il carattere degli strumenti si scopre con la sperimentazione, con tante semplici prove sulle possibilità d’uso concreto che il materiale offre. Collaboro con la Fondazione Achille Castiglioni.