Idee chiare e confuse
Articolo a cura di Sara Leghissa
Fake Uniforms è il risultato di una serie di prove e tentativi che sono stati costruiti in questi ultimi due anni.
Io sono una performer: il mio dispositivo è l’arte performativa, che pratico a partire da una ricerca che si interroga sulle azioni legali e illegali e sulla visibilità e invisibilità dei corpi nello spazio pubblico.
Da sempre, svolgo il mio lavoro nello spazio pubblico e non nei teatri. Per questo, di volta in volta si rende necessario approfondire la questione di cosa sia legale e cosa no e di come portare il corpo nello spazio pubblico. Questo sia dal punto di vista del performer sia durante l’incontro con le comunità di persone insieme alle quali nascono i diversi progetti.
Fake Uniforms, in particolare, è l’ultimo lavoro che ho realizzato ed è il primo che ha assunto un formato così simile a un’operazione di street art, i cui metodi e intenti mi hanno sempre interessato molto: sento molto vicina l’idea di usare il minimo di risorse possibile per arrivare al maggior numero di persone possibile, così come il proposito di scegliere lo spazio in cui collocare ciò che si vuole dire e la necessità di farlo rapidamente. Spesso, infatti, la street art si compone di pratiche non legali, ovvero non autorizzate: decidi che vuoi arrivare a qualcuno con un messaggio e lo fai prendendoti un pezzo di strada, col rischio di essere multata o arrestata.
In particolare, a me interessava la possibilità di mimetizzarmi, di riuscire a portare nello spazio pubblico un’operazione – anche non autorizzata – attraverso un dispositivo mimetico. La mia performance consiste in un’affissione pubblica di circa mezz’ora in cui, vestita da lavoratrice della strada, attacco con molta rapidità settanta manifesti uno sopra l’altro. Qualunque passante può intercettare la mia operazione e farlo, ovviamente, a diversi livelli: c’è chi rimane attratto dai contenuti, spiazzato dall’improvvisa consapevolezza che non si tratta di messaggi pubblicitari, chi confonde la mia presenza e attività con un gesto di ordinaria quotidianità che rientra perfettamente nel paesaggio urbano cui è abituato.
I testi dei manifesti sono stati scritti di volta in volta insieme alle comunità che ho incontrato nel corso della ricerca e delle residenze svolte negli ultimi due anni. Così, se in generale la performance è un’occasione per interrogarsi sui temi della legalità e illegalità, della visibilità e invisibilità nello spazio pubblico, il contesto di riferimento, ogni volta diverso, ha aperto tematiche più ampie e differenti.
Ramallah
A Ramallah il tema della legalità e illegalità nello spazio pubblico e la riflessione sui corpi hanno un peso che è molto diverso da quello che può avere in altri contesti. Nella mia esperienza, in particolare, ho incontrato una comunità di persone composta da femministe, attiviste politiche, lesbiche, queer che, grazie al loro vissuto, aggiungevano ulteriori livelli di complessità al tema che trattavamo.
L’affissione dei manifesti ha poi aperto nuove questioni: l’atto illegale è stato eseguito da me e altre due persone bianche e occidentali, che, come tali, non hanno avuto alcun problema di fronte alle forze dell’ordine. Quanto accaduto ci ha fatto riflettere: di fronte alle forze dell’ordine, chi è visibile? Chi può agire indisturbato e chi no?
Madrid
A Madrid ho fatto ho incontrato una comunità di omosessuali anziani, ospitati presso una casa di riposo aperta appositamente per loro. Il laboratorio ci ha fatto esplorare il tema di come possa cambiare l’esperienza della legalità dei propri corpi a seconda del momento storico: sotto il regime di Franco alcuni di loro, proprio perché trans e omosessuali, erano stati incarcerati. A partire da questa conversazione, abbiamo scritto dei testi che poi abbiamo affisso illegalmente nel quartiere in cui si trova il loro centro. E anche in questo caso l’affissione ci ha reso più consapevoli della realtà che ci circonda. Noi, persone bianche occidentali, attaccavamo i manifesti rapidamente per non essere intercettate dalle forze dell’ordine che però, nonostante fossero presenti nel quartiere, non ci degnavano di uno sguardo: polizia e carabinieri erano lì solo per controllare gli immigrati e non si curava minimamente di ciò che stavamo facendo noi. Anche in questo caso è tornato il tema della discriminazione razziale nell’ambito della visibilità nello spazio pubblico.
Milano
Il formato del progetto, nel tempo, ha assunto due diverse declinazioni: una più rapida (appaio per trenta minuti e scompaio; il testo si cancella e nello spazio pubblico non rimane niente); una permanente, sotto forma di installazione. Coinvolta dall’associazione Lazzaretto, che voleva che realizzassi un progetto per il loro festival, ho suggerito questa seconda opzione. E, spinta da un forte desiderio, ho chiesto di poter lavorare insieme a un gruppo di adolescenti, così che avessero la possibilità di esprimere il loro vissuto nel tempo del lockdown. Era con loro che, più di tutti gli altri possibili interlocutori, mi interessava aprire una conversazione: con loro, che si erano ritrovati a vivere quel primo anno di pandemia in un momento di crescita, scoperta e apertura così dilatato e complesso. Volevo discutere con studentesse e studenti delle scuole superiori e capire come e se, in una situazione di totale isolamento, fossero comunque riusciti a costruire relazioni e reti di solidarietà, anche, perché no, attraverso vie non legali.
Maddalena Fragnito, che, fra le tante cose di cui si occupa, è anche parte del movimento Priorità alla Scuola, mi ha dato la possibilità di incontrare alcune ragazze e ragazzi provenienti dall’Unione degli Studenti, dai collettivi e da alcuni licei della città, come il Boccioni e il Carducci. Eravamo una ventina di persone, quando ci siamo incontrati a Pepe Verde, in zona Isola. In quest’occasione i ragazzi e le ragazze presenti ci hanno raccontato come avessero vissuto l’esperienza da diversi punti di vista. Mano mano che parlavamo, si spalancavano numerose tematiche. Alla fine, abbiamo selezionato 50 frasi che abbiamo ritenuto particolarmente significative, dal punto di vista tanto personale quanto collettivo e condiviso.
«La scuola ha riaperto come dopo una nevicata»
Uno delle tesi più sostenute dalle ragazze e dai ragazzi era proprio l’idea che si fosse tornati a scuola facendo finta che non fosse successo niente: “non ci stiamo chiedendo come stiamo, nessuno ci sta domandando come ci sentiamo”, dicevano. E guai a lamentarsi, perché c’è chi era stato peggio di loro.
Da questa prima constatazione si sono aperte numerose questioni legate a malesseri individuali, solitudini talvolta condivise e azioni di solidarietà. Raccontavano che la prospettiva della DAD toglieva loro il desiderio di alzarsi dal letto e che, per non essere visti attraverso la telecamera, si mettevano in controluce. Riferivano episodi di genitori che entravano e uscivano continuamente dalle loro stanze e confessavano che, durante la didattica a distanza, le dinamiche sociali – il rapporto con i compagni, il proprio ruolo all’interno della classe – erano cambiate, perché ciò che si sarebbe detto e fatto in presenza, non era possibile replicarlo da casa.
Mi è rimasto impresso l’esempio di un atto di protesta solidale. Una ragazza, che non voleva portare in classe la sua situazione domestica, avrebbe preferito partecipare alle lezioni a videocamera spenta, ma questo l’avrebbe portata ad avere conseguenze negative nella valutazione. Attraverso chiamate pirata (parallele a quelle ufficiali previste dalla DAD), la ragazza è riuscita a far presente il suo disagio ai compagni, che si sono accordati, da un certo momento in poi, per non aprire più alcuna videocamera. Hanno fatto fronte comune per esserle d’aiuto.
L’idea che la scuola entrasse in casa è stata sofferta da molti. Alcuni si sono sentiti dei privilegiati per il fatto di avere una propria stanza. Altri hanno individuato nella casa possibili spazi di libertà. Al rientro a scuola, d’altro canto, hanno raccontato di aver provato un certo disagio nel trovarsi di nuovo a tu per tu con il corpo degli altri, ritrovati in presenza. E, nel tornare a praticare le vecchie abitudini, si sono sentiti spaesati nel pensare a possibili luoghi di incontro nel tempo libero, come se non sapessero più dove andare per uscire in compagnia – e come farlo.
Infine, è senz’altro emerso il complesso rapporto con i docenti. Dai racconti che ho potuto ascoltare, sono stati più numerosi gli episodi di reciproca solidarietà tra studenti e studentesse rispetto a quelli tra allievi e insegnanti. E uno dei rammarichi più diffusi era il fatto che, finita l’esperienza della DAD, la sensazione fosse quella di dover rendere, essere valutati e al passo col programma: un ritorno brusco, come se nulla fosse, alla normalità, che ora a molti appare ancora più insopportabile. Tuttavia, sono stati anche riferiti momenti di estrema tensione che hanno caratterizzato il fronte più adulto: professori e professoresse insofferenti, che è capitato finissero a loro volta per piangere. Sarebbe davvero interessante replicare il lavoro fatto con le ragazze e i ragazzi anche con gli insegnanti, perché anche per loro la scuola ai tempi della pandemia ha rappresentato (e rappresenta) un disagio del tutto inconcepibile.
Sara Leghissa è una ricercatrice indipendente e performer con base a Milano. La sua pratica artistica avviene principalmente nello spazio pubblico, attraverso un principio di ecologia delle risorse, che si serve il più possibile di ciò che è già disponibile nella realtà. Crea sistemi e dispositivi che cercano di mimetizzarsi e confondersi con il contesto, per veicolare immagini e contenuti e per incontrare e intercettare pubblici diversi, attraverso l’uso di tecnologie accessibili e legate all’ordinario. È stata co-fondatrice del progetto artistico Strasse e ha collaborato con diversə artistə e collettivi, tra cui Teatro Valdoca, -Dom, Giorgia Ohanesian Nardin, Muta Imago, Jacopo Miliani, Daniela Bershan, Dorota Gawęda & Eglė Kulbokaitė. Ha presentato il proprio lavoro in contesti e festival italiani e internazionali, tra cui Santarcangelo Festival (IT), Triennale Teatro dell’Arte (IT), Short Theatre (IT), VAC Foundation (IT), Far Festival (CH), Oerol Festival (NL), Festival Parallele (FR), Saal Biennal (EE), Tombees De La Nuit (FR). Co-organizza per la scena italiana Nobody’s Indiscipline, una piattaforma indipendente per lo scambio di pratiche nella performing art, e NESSUNO, un raduno pubblico per una comunità di persone che nel corso della notte reclama e celebra l’energia dei corpi e la loro diversità.