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Un viaggio alla scoperta dell’urbanistica tattica

Intervista a Michele Brunello

Asphalt art to test new micromobility solutions in Asheville, North Carolina. Fonte:NC Asheville

In questi ultimi anni si parla molto di Urbanistica Tattica. Di cosa si tratta?
L’Urbanistica Tattica è un approccio che prevede diversi tipi di azioni – a volte promosse direttamente dai cittadini, altre dalle amministrazioni locali – che hanno lo scopo di migliorare gli spazi pubblici per renderli più utili e piacevoli per chi li usa.

1.

In Italia e nel mondo si sta intervenendo spesso con azioni di Urbanistica Tattica: può un cambiamento estetico e superficiale cambiare le funzioni dello spazio?

Innanzitutto non direi che l’urbanistica tattica sia un cambiamento superficiale o estetico. Mi piace molto la definizione di scorza che date: la scorza ha una dimensione tridimensionale, è una rugosità e possiamo immaginare che i suoi solchi siano come quelli lasciati dalle persone che attraversano lo spazio pubblico. In questo caso, i segni presenti sulla scorza non corrispondono affatto a un’operazione superficiale, ma, semmai, costituiscono le relazioni tra l’interno e l’esterno.

Molte questioni oggi devono misurarsi con queste relazioni per rivelarsi più o meno vincenti. Pensiamo al design: la qualità delle superfici del touch e la nostra reazione al tocco influiscono sul successo (o insuccesso) degli oggetti. E cosa dire in merito alla forma che prendono i discorsi, anche quelli pubblici? Quando un discorso molto approfondito deve proiettarsi all’esterno e diventare comunicabile, finisce per essere semplificato, ma la qualità di questa semplificazione ne determina l’esito. Ecco, lo spazio pubblico è in qualche modo un luogo vivo, complesso, fatto da mille attori, che probabilmente trova nella sua scorza, nella profondità dei solchi scavati, le sue possibilità di intervento. 

Tornando alla domanda: può un intervento sulla scorza cambiare le funzioni dello spazio? Ancora una volta devo soffermarmi sul termine: lo spazio pubblico ha una funzione? Posso progettare spazi funzionali, d’accordo; se progetto una strada, devo considerare che la percorreranno delle macchine; se progetto una piazza, però, quali funzioni avrà? Non è così scontato che si possano definire. 

Friction Atlas, progetto a cura di Giuditta Vendrame e Paolo Patelli

Lo spazio, forse, funziona quando non è funzionale, quando gli spazi si adattano in base alle esigenze delle persone. La monumentalità è in grado di cristallizzare, bene o male, un tempo storico in uno spazio e questa dimensione dello spazio pubblico permane nel tempo, lo riconosco, ma è l’unica a farlo. In tutti gli altri casi lo spazio pubblico è un luogo vivo, continuamente modificato dalle persone.  

L’urbanistica tattica è un cambiamento, sì, ma non direi che interviene sulle funzioni dello spazio. Piuttosto, aiuta ad aumentare il livello di indeterminatezza, toglie monofunzionalità. In poche parole, l’urbanistica tattica aiuta le persone a riappropriarsi dello spazio pubblico, che, sempre più normato, controllato e misurato, è via via più complicato fare proprio. Pensiamo ai dispositivi di controllo o anche alle leggi che in questo periodo vietano gli assembramenti e che, in certe parti del mondo, vigono regolarmente e vincolano i comportamenti delle persone nello spazio pubblico. Ecco, questo insieme di regole fissa dei binari che l’urbanistica tattica in qualche modo smonta e sovverte, così che la cittadinanza possa usare (e rinnovare)  lo spazio in un modo diverso e più libero, per esempio spostando le aree che prima erano destinate alle automobili per creare un luogo di riposo degli anziani e di gioco degli abitanti, o piantando del verde dove un tempo c’erano delle funzioni minerali. Un simile processo, dunque, cambia lo spazio pubblico nel toglierne la funzione, non nel modificarla.

2.

Ci sono esempi di cambiamento estetico che non ritieni efficaci perché non ritieni duraturi? Ce ne sono, invece, che ti hanno convinto?

Detto che l’essere duraturi non è necessariamente un indice di efficacia, molti interventi di urbanistica tattica, nonostante siano proposti e realizzati dagli abitanti più attivi, deperiscono per poca cura, poca affezione, da parte della cittadinanza più estesa, soprattutto nelle zone soggette a degrado. Deve essere chiaro che l’urbanistica tattica non risolve dei problemi ma apre delle possibilità. A Milano, dove si sta intervenendo in maniera massiva sullo spazio pubblico con l’urbanistica tattica, si vedono le grandi potenzialità di tutti gli interventi, come a Nolo, Isola e anche Dergano, ma anche i limiti di quelli nelle zone più problematiche, come a Corvetto, dove le zone di intervento sono luogo di conflitto tra diversi gruppi di persone che frequentano lo stesso spazio pubblico. 

Invece mi è piaciuta molto la serie di interventi effettuata da Giuditta Vendrame e Paolo Patelli con Friction Atlas. Si tratta di interventi molto leggeri, fatti quasi solo stendendo dello scotch per terra o poco più, in modo da ottenere dei segni che, sulla superficie delle piazze, compongono dei diagrammi in grado di restituire i rituali, imposti o spontanei, delle persone. Questi segni tracciano i percorsi delle persone, evidenziano i luoghi di accessibilità, di controllo, mostrano come le persone si dispongono durante certe manifestazioni e, in qualche modo, non solo raccontano la dimensione estetica dello spazio, ma consentono alle persone di divenire consapevoli dell’uso che fanno dello spazio. Questo intervento, realizzato in diversi luoghi in Olanda, Grecia, Slovenia, Australia è artistico e, anche se gli interventi tipici dell’urbanistica tattica dovrebbero vedere la partecipazione attiva dei cittadini, può comunque considerarsi un esempio anticipatorio di questo approccio. La particolarità del caso descritto sta nell’incontro con i cittadini avvenuto sui contenuti, cui è poi seguita la realizzazione a opera di artisti e designer che individuavano le regole “invisibili” dello spazio pubblico e giocavano a infrangerle. Il prosieguo dovrebbe coinvolgere le persone anche nella realizzazione dell’intervento. In ogni caso, dell’esempio che ho illustrato mi piace molto il fatto che, oltre a inserire la dimensione del gioco e dell’estetica, sa raccontare l’uso che le persone fanno dello spazio, tanto da potersi quasi rispecchiare nello spazio pubblico. 

Friction Atlas, progetto a cura di Giuditta Vendrame e Paolo Patelli

3.

L’architettura contemporanea è capace di evolversi in base alle nuove realtà?

Oggi, a disegnare lo spazio pubblico, non c’è l’architettura contemporanea, ma una molteplicità di soggetti, che sviluppano e, in qualche modo, configurano lo spazio. Tuttavia, credo che oggi si incida molto di più sulla città attraverso il design. Dunque, se allarghiamo la prospettiva e con architettura contemporanea non intendiamo più solo la disciplina del costruire ma anche l’attività di maker e designer che intervengono sulla città apportando modifiche durature, allora possiamo dire di sì: l’architettura è riuscita a evolversi nella misura in cui tutto ciò che non è architettura tradizionale ha saputo adattarsi. 

La trasformazione permanente dello spazio secondo un percorso tradizionale, invece, è in grande difficoltà. Lo si vede nelle New Towns, dove l’architettura contemporanea è entrata in modo prepotente. Si pensi a Dubai, alle città asiatiche e in particolare alle città cinesi, dove le persone non riescono ad appropriarsi dei nuovi spazi pubblici, perché questi sono sviluppati da grandi enti, in mall, secondo interventi commerciali o residenziali che di fatto ne disegnano una progettazione top down1 che cerca di rappresentare il livello in cui vuole stare un pezzo di città. Invece, nelle città che hanno una storia e che procedono per cambiamenti minuti, nella stessa Parigi, che è stata tra le prime a intervenire con l’urbanistica tattica (pensiamo alla spiaggia lungo la Senna), o a Berlino, dove la cittadinanza è più matura e sono stati gli stessi cittadini ad apportare le trasformazioni, i designer sono riusciti a incidere tanto da diventare più forti dell’urbanistica stessa. 

Credo che gli interventi di design e di urbanistica tattica sappiano prendersi cura degli spazi di una città più di quanto non faccia l’architettura contemporanea. Quest’ultima lavora a partire da grandi visioni, che realizza anche con grande qualità, ma la città è un progetto sul tempo, oltre che sullo spazio. Prendersi cura dello spazio pubblico e tenerlo vivo sono azioni che hanno necessariamente bisogno di una cittadinanza attenta e attiva, che li tenga da conto, li modifichi o, più semplicemente, li abiti. Qui sta tanto la difficoltà dell’architettura contemporanea quanto l’efficacia del design e dell’urbanistica tattica, che lavorano al livello più basso dei processi. 

4.

Da architetto che lavora su grandi spazi, quali suggerimenti daresti a un insegnante che deve progettare interventi leggeri nelle proprie aule?

Credo che dovremmo cominciare a pensare all’aula non come a una stanza ma come a una casa, perché è abitata da molte persone e le relazioni che ne conseguono sono di grande rilievo e perché le attività che vi si svolgono sono così tante che momenti diversi si alternano e si succedono continuamente; non è da sottovalutare, poi, la funzione empatica ed emozionale di questo spazio. Tutto questo ci invita a immaginare l’aula come una composizione di spazi e a togliere la monofunzionalità, che adottiamo invece se pensiamo che la lezione frontale sia l’unico modo per abitare la classe da un punto di vista didattico. Pensando all’aula come a una casa, possiamo immaginarla divisa in zone che si adattano ai vari momenti: la ricreazione, l’interrogazione, in cui lo studente deve sentirsi a proprio agio, la discussione, etc. L’ideale sarebbe rendere la trasformabilità dello spazio attraverso una griglia fatta con strutture leggere, come linee tracciate con del semplice scotch, fili o interventi che ogni anno possono essere facilmente tolti, così che ogni anno la classe possa essere abitata in modo nuovo dagli studenti che subentreranno. L’importante è trovare il modo di creare delle zone di cui gruppi di studenti e insegnanti riescano pian piano a prendersi cura, che riescano a migliorare nel tempo, abitandole e adattandole, facendosi responsabili di quelle zone anche nei confronti degli altri

In questo modo, per esempio, uno spazio dedicato alle discussioni potrebbe non apparire più come un adattamento temporaneo, realizzato spostando le sedie in fretta e furia e per il solo tempo necessario, ma concretizzarsi in una configurazione adatta a un confronto non frontale tra le persone. Allo stesso modo, l’occasione del compleanno di una persona potrebbe determinare la creazione di uno spazio adatto alla ricreazione e alla convivialità. Si tratterebbe sempre di spazi creati con modalità temporanee e flessibili, ma pensati perché si vadano a costruire nel tempo secondo un progetto che duri un anno. 

Immaginare l’aula come una casa sarebbe davvero un esercizio fantastico per riappropriarsi e prendersi cura dello spazio, in questo caso, della scuola. È un esercizio che farebbero studenti e insegnanti, ma che si potrebbe poi proporre all’intera cittadinanza perché lo esegua nello spazio pubblico e nella sfera collettiva più generale


NOTE
1 La progettazione top down parte dall’obiettivo e da esso fa scaturire la strategia direttamente adatta a determinare l’obiettivo stesso, quindi valorizza il perché e da esso fa dipendere il come, ovvero la strategia. Il bottom up prende corpo dal punto di partenza (bottom) ovvero dalla situazione iniziale; considera l’obiettivo finale, induce a costruire un percorso sequenziale organizzato in passaggi successivi in cui l’ancoraggio tra traguardi intermedi e obiettivo finale è ricercato con metodo generalmente improntato a tentativo ed errore quindi di tipo casuale, nei casi migliori intuitivo.

Michele Brunello, 1975, architetto, designer e curatore. Studia negli anni ’90 a Venezia dove collabora con Giancarlo De Carlo, Hans Ulrich Obrist, Armin Linke e frequenta il dottorato con Bernardo Secchi. Fonda il collettivo attuAlmente e lavora con l’impresa di interior di famiglia LAIMA. Successivamente collabora per 10 anni con Stefano Boeri trasferendosi a Milano e diventando partner di Stefano Boeri Architetti fino al 2017, co-fondando SBA China. Dal 2011 guida con Marco Brega lo studio DONTSTOP Architettura, con cui realizza progetti in Italia e all’estero tra cui si evidenzia Abitare in Maggiolina e i lavori di restyling dello Stadio di San Siro e centri sportivi di Inter e Milan, e ha focus sui temi del design e dell’innovazione sviluppato attraverso collaborazioni con l’Asia come direttore creativo del Sino European Innovation Institute, curatore del programma Across Chinese Cities alla Biennale di Venezia e di XPort alla Suzhou Desing Week. Ha pubblicato libri e articoli su riviste internazionali, insegna e collabora con diverse università tra cui Il Politecnico di Milano e lo Iuav di Venezia. È padre di due bambine.