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La poesia del fiume

A cura di Matteo Loglio

Crediti fotografici di Owen Richards

Il progetto Natural Networks, il cui nome è un chiaro rimando alle Neural Networks, consiste in una una rete di boe, ossia device galleggianti sparsi sui canali di Londra, ideate, progettate e costruite per una mostra avvenuta in occasione del London Design Festival nel settembre del 2017. Si tratta di boe arancioni al cui interno sono stati collocati dei sensori di luce, di movimento, di temperatura e di geolocalizzazione. Ogni boa era dotata di un’ancora che le impediva di essere trascinata via dalla corrente e all’interno avevamo sistemato una batteria e una chiavetta, di quelle che si connettono al 3G in modo tale da poter raccogliere questi dati ambientali e mandarli nella cloud.

Questo è il funzionamento tecnico. Ma dobbiamo fare un passo indietro: all’origine di Natural Networks c’è, come ho detto all’inizio, una mostra il cui brief era costituito da una semplice parola, water. È stata una mostra a cui hanno partecipato designer, artisti, ricercatori, fotografi, videomaker… tutti chiamati a progettare partendo dal concetto di acqua. Ho deciso di collaborare con lo studio Six Thirty con cui all’epoca condividevo lo studio sui canali di Londra. Immediatamente abbiamo deciso di lavorare sui canali, stabilendo fin da subito delle connessioni con il Canal Trust, un’organizzazione volta a tutelare e valorizzare i canali della città. Siamo partiti dalla domanda: com’è possibile creare una connessione tra un corso d’acqua, ossia un oggetto inanimato, e gli esseri umani? Tra i numerosi spunti raccolti, uno in particolare mi ha colpito: quello della lingua. Stavo leggendo un po’ di articoli sul linguaggio e ho pensato a quanto sarebbe stato interessante far parlare il fiume. Da lì si è aperto un mondo: ma quale lingua parla un fiume? Ci inventiamo una lingua?

All’inizio pensavamo di creare una lingua solo per il fiume, ma poi c’era il rischio che diventasse troppo concettuale, tipo parole senza senso. Alla base c’era l’idea di Wittgenstein secondo cui se il leone parlasse, noi comunque non saremmo in grado di comprenderlo [1]: la stessa cosa la si potrebbe applicare all’acqua. Se il fiume avesse un linguaggio, parlerebbe un linguaggio che noi umani non saremmo in grado di comprendere. Sarebbe stato però tutto troppo concettuale, mentre noi volevamo che si stabilisse una connessione vera tra il fiume e noi umani. Così abbiamo deciso che il fiume avrebbe parlato in inglese. Ma come? Facciamogli fare poesia, a partire dai suoi sentimenti.

Ma, per avere sentimenti, era necessario che il fiume fosse messo nelle condizioni di sentire il mondo e quindi gli abbiamo dato questi sensori, che potremmo paragonare ai nostri occhi, alle nostre orecchie e alla nostra pelle. In base a cosa sentiva, iniziava a scrivere delle poesie: è qui, in questo passaggio, che assistiamo al collegamento tra i sensori, di cui abbiamo parlato all’inizio, a una rete neurale, ossia un’intelligenza artificiale. Ma come funziona? Come in tutte le intelligenze artificiali, le abbiamo passato una serie di dati che pian piano impara, divenendo in grado di prevedere. I nostri dati in questo caso altro non erano che la produzione poetica del XXI secolo. Abbiamo creato un enorme file di testo e l’abbiamo passato all’intelligenza artificiale, che ha impiegato circa due giorni di training per assimilare tutti i dati. A questo punto, dopo che la nostra intelligenza artificiale aveva imparato, in base ai valori dei sensori il fiume “scriveva” una poesia. Quindi se c’era buio e freddo, il fiume generava una poesia che aveva a che fare con il buio e con il freddo: traslava dei numeri in parole, in poesia. Spesso queste poesie sembrano essere state scritte da un essere umano: mai si penserebbe che a scriverle sia stato un algoritmo.

Crediti fotografici di Owen Richards

Tanti i temi che emergono:

Una macchina può scrivere poesie? 
Una poesia scritta da una macchina assomiglia a quelle scritte dagli uomini? 
Possiamo pensare a degli altri processi per generare un linguaggio? 
Si potrebbe pensare a diversi processi di decodificazione e provare a sperimentarli?

Crediti fotografici di Owen Richards

Esperimento

Parti da un unico elemento a tua scelta: luce, colore, suono [2].

Decidi una sequenza o di suoni o di luci o di colori che, composta in un certo modo, dia luogo a una parola. 

Esempio del vocabolario delle parole colorate:

verde scuro + verde chiaro + marrone + nero = bosco
verde scuro + (giallo + rosso + arancio…)= prato in fiore
verde chiaro = prato
rosso + bianco + marrone= pettirosso

Componi le tue frasi e donale al mondo!

Il video dei poemi by Matteo Loglio and Six Thirty studio:


[1] “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo” (Ricerche, II, p. 292). https://aibstudi.aib.it/article/view/11820/11220

[2] Conviene un suono facilmente riproducibile, tipo un fischietto, un triangolo, un tamburo…


Matteo Loglio è un designer del prodotto e dell’interazione, e fondatore di oio – un nuovo studio di design sperimentale, basato a Londra ma di respiro internazionale. I suoi progetti si collocano tra l’avanguardia tecnologica e creativa, attraverso prodotti sperimentali grandi e piccoli, spesso i primi nel loro genere. Di recente ha progettato uno strumento musicale per Google, ha insegnato ad un fiume di Londra a comporre poesie utilizzando l’intelligenza artificiale, e ha fondato la società ed-tech Primo Toys, dalla quale è nato Cubetto, un piccolo robottino di legno che sta cambiando la vita ai milioni di bambini che lo utilizzano tutti i giorni. Matteo insegna e parla di design e creatività in università, centri culturali e hackspaces di tutto il mondo. A volte i suoi lavori si possono trovare in posti come il MoMA a New York, il V&A Museum a Londra o in Triennale a Milano.

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