Laboratorio a cura dei Ludosofici
Nell’antichità gli esseri umani abitavano un mondo di cui non sapevano molto.
Lo osservavano con occhi attenti e curiosi, al contempo colmi di meraviglia e di terrore: lo stesso sguardo poteva cogliere ora la bellezza di un paesaggio ora il mistero, anche spaventoso, dello scatenarsi di un fenomeno naturale.
Che cosa fare con un mondo così sconosciuto? Le possibili reazioni sono due: il desiderio di capire, dunque di dare spiegazioni a ciò che pare del tutto ignoto, da un lato apre alla ricerca di prove concrete e dati scientifici che sappiano rivelare la verità dei fatti e, dall’altro, scatena l’immaginazione, che dà vita a storie in grado di narrare il mondo e ogni suo dettaglio.
Noi oggi siamo abituati a pensare che le storie, ovvero i miti che raccontano l’origine delle cose, siano state di volta in volta superate dalle scoperte scientifiche, che hanno saputo dare una risposta a domande che prima non l’avevano. Crediamo, insomma, che la scienza abbia via via riempito seriamente i buchi che fino al momento precedente l’immaginazione aveva colmato in modo ingenuo.
Vista così, però, sembra che tra le spiegazioni della
e i prodotti dell’ ci sia una gara in corso destinata a vedere la prima sempre in vantaggio sulla seconda. Di conseguenza, non ci sentiamo più legittimati a comporre storie su qualcosa che ormai è già stato indagato e archiviato: se oggi sappiamo come si origina una sorgente, a quale scopo inventare una storia simile a quella della ninfa Aretusa, trasformata in fonte per non essere catturata dal dio Alfeo? Perché, oggi che gli scienziati studiano a fondo il fenomeno del Big Bang, dovremmo immaginare che il mondo abbia avuto origine dalla decisione compiuta da un gigante di nome Pangu, che all’improvviso, come racconta il mito cinese, ruppe il guscio nel quale dormiva da sempre?Non ci sarebbero ragioni valide per farlo, se non il fatto che ancora oggi non resistiamo al fascino che quegli antichi racconti esercitano su di noi: le storie ci sono sempre piaciute, che si trattasse di inventarle o di ascoltarle. I miti nascevano dalla necessità di spiegare l’ignoto, ma anche dal desiderio di ricamare intrecci di immagini e parole che rendessero il mondo più vicino, più sentito. E non si limitavano a raccontare fenomeni naturali che sfuggivano a ogni comprensione, ma interessavano anche l’origine di alcuni oggetti artificiali: anche questi, scaturiti da mani e menti umane, meritavano una loro narrazione, una loro poesia fatta di parole.
L’attività che vi suggeriamo è un atto di coraggio, che consiste di pochi, ma decisivi passaggi:
Anche questo laboratorio ha una storia. Una storia vera, in questo caso, che affonda le sue radici nei mesi estivi che ormai abbiamo alle spalle e che noi Ludosofici abbiamo trascorso in larga parte alla Triennale di Milano per i Campus Estivi.
Ogni settimana, i bambini erano invitati a presentarsi agli altri attraverso la scelta di un simbolo, che poteva essere deciso in modo del tutto libero o nell’ambito più circoscritto del tema di cui ci sarebbe piaciuto parlare.
La nascita di questo laboratorio risale a un momento in cui la nostra attenzione era stata attirata dal mondo musicale, tanto che ai bambini era stato chiesto di presentarsi attraverso lo strumento musicale che preferivano o da cui si sentivano in qualche modo rappresentati. Si è così cercato di capire quali strumenti i bambini conoscessero e quali invece non avessero mai sentito nominare ed è stato loro raccontato il mito greco (leggermente edulcorato) della nascita della Lira per mano del Dio Ermes. Ne è seguita la naturale richiesta, decisamente ben accolta dai bambini, di comporre a loro volta una storia che raccontasse l’origine del loro strumento musicale.
Quella che segue è “La Nascita del Pianoforte”, immaginata e illustrata dal giovanissimo Michele, che quest’estate l’aveva raccontata e che oggi ci ha permesso di trascriverla per condividerla con voi (la versione che leggete qui è stata revisionata e approvata dal suo autore):
«C’era una volta un’orca solitaria, che attraversava le profondità degli oceani. Era stanca di nuotare sempre da sola: le sembrava di non combinare niente di buono, ma era convinta che, se ci avesse pensato intensamente, sarebbe riuscita a capire che cosa fare per migliorare la situazione e portare nel mondo un po’ di bellezza. E così accadde. Si precipitò dal dio Ares, dio della guerra, che le sembrava il più adatto ad assolvere il compito che voleva assegnargli: realizzare il suo desiderio di essere trasformata in uno strumento capace di produrre le più dolci e intense melodie. Assecondando la sua volontà, il dio scoccò una freccia alla volta della coda dell’orca, che così si trasformò. Nacque un nuovo strumento, che dell’orca conservava i colori, il bianco, il nero e il grigio. I denti dell’animale si disposero ordinatamente uno accanto all’altro, ma erano moltissimi e tre di loro caddero a terra, pur rimanendo vicini. I colori del manto tinsero i denti, riservando il grigio a quelli posizionati vicino al terreno. Così vari e colorati, non erano più spaventosi e appuntiti come prima: guardandoli, era impossibile resistere alla tentazione di premerli, usando ora le mani ora i piedi a seconda della loro posizione. E così facendo nascevano i suoni più meravigliosi. Quanto alla coda colpita dalla freccia, essa è il dettaglio più speciale, che caratterizza solo gli esemplari di più nobile fattura. Ed è per questo che, a produrre il suono più pregiato, tra tutti è il pianoforte a coda».