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Lettere animali

Intervista a Alice Lombardelli e Jonathan Pierini

Siamo portati a pensare che le nostre lettere siano semplici segni, suoni scritti che non aspettano altro di essere combinati, letti o pronunciati, ma che di certo non hanno la pretesa di nascondere il mondo che poteva essere racchiuso, per esempio, nella forma di un geroglifico. Le nostre lettere non somigliano a niente: sono astratte e, soprattutto se prese da sole, molto lontane dalla realtà… O forse no?
Alice Lombardelli e Jonathan Pierini, autori di Giorno bestiale, ci raccontano la nascita di un libro e di un progetto in cui le lettere finiscono per trasformarsi in animali, gli abbecedari diventano bestiari e gli animali danno vita a straordinarie forme di linguaggio.


«La lettera A viene dalla lettera fenicia aleph, che a sua volta viene dal geroglifico egizio del bue. Se la A corrisponde al bue, quanti altri animali si nascondono nell’alfabeto? E quante storie possiamo leggere nei segni che usiamo per scrivere?». In queste righe è riassunta l’idea che è alla base del vostro libro. Volete parlarcene?

JP: Potrei cominciare dicendo come ha avuto inizio per me questa avventura.
Un giorno, Alice mi ha contattato per chiedermi se volessi creare i disegni per un racconto. Sono stato colto di sorpresa, perché io e l’illustrazione siamo due mondi molto lontani: da un lato, è un dato di fatto che io non sappia disegnare; dall’altro è una realtà che conosco da poco e con cui non mi ero mai cimentato. Per questo, prima di decidere, mi sono preso molto, molto tempo.

In seguito, complice la pandemia, mi sono messo a disegnare – a scarabocchiare, più che altro – e ho cominciato a pensare a quale contributo avrei potuto dare in questo ambito. E ho deciso che sarei partito dall’idea secondo cui l’abbecedario è un bestiario e viceversa: sono convinto che, anche se gli oggetti sono diversi, si tratti praticamente della stessa cosa. Le lettere sono come degli animali, perché nel tempo cambiano e si evolvono, anche se siamo portati a immaginarle come qualcosa di cristallizzato, fisso e immutabile. Così, avrei giocato un po’ con l’evoluzione e con i significati delle lettere da un punto di vista abbastanza ironico, cercando di vederle come segni che possono rappresentare tante cose: caratteri figurativi, astratti o iconici a seconda di come le vogliamo interpretare.
Nel passaggio che hai letto si fa riferimento alla aleph, una lettera che nasce da un animale, dalla sua rappresentazione: la lettera e il bue, la comunicazione e il mondo animale sono entrambe necessità, elementi primordiali del mondo in cui viviamo. 
Da qui siamo partiti e abbiamo giocato in modo molto libero sulle connessioni tra mondo animale e lettere animali.

AL: Jonathan ha parlato dell’evoluzione del linguaggio e della comunicazione. È un punto su cui vorrei soffermarmi ancora un momento.
Ciò che noi oggi percepiamo come un affresco, un dipinto murario o un’opera d’arte di qualsiasi tipo parte innanzitutto da un’esigenza di comunicazione: quanto troviamo raffigurato è una storia, un simbolo. Ed è lì per raccontarci qualcosa
Il libro, e il progetto che vi ruota intorno, nasce proprio dalla sensazione che oggi ci sia scarsa consapevolezza delle storie nascoste tra le lettere e tra i simboli. Il luogo al centro di Giorno bestiale è una chiesa dedicata a san Francesco sita a Mercatello sul Metauro, un luogo oggi piccolissimo, ma un tempo estremamente importante, poiché ubicato in mezzo all’Appenino, tra Umbria, Marche ed Emilia Romagna, proprio su quella magica via segnata dal passaggio di Giotto e delle sue innovazioni artistiche. Tanto l’arte quanto la Chiesa dell’epoca volevano trovare il modo di avvicinare le persone – si stava sviluppando una nuova religiosità – ed è così che l’opera di Giotto e della scuola giottesca finì per elaborare un linguaggio, uno stile e una simbologia – una forma di traduzione di alcuni concetti – che troviamo anche all’interno della chiesa. Nel libro, e nel laboratorio, proviamo a ripercorrere, rintracciare e interpretare questo linguaggio, cercando di recuperare quello che c’era a partire da ciò che c’è ancora.
Il libro, perciò, è la traduzione materiale di quello che in origine era un laboratorio. Se il progetto partiva da una traduzione ludica, il libro è una traduzione scritta che prova a conservare e a trasformare un linguaggio.


Come è nato il laboratorio che precede e da cui ha origine il libro?

AL: Mi era stato chiesto di creare un laboratorio per i bambini e le bambine della scuola primaria e io ho cavalcato molto l’onda del bestiario. 
Quello che esprimevano tanto il museo quanto, soprattutto, la chiesa era il forte racconto attraverso le simbologie dettate dagli animali: parlare di icone di santi o di casate attraverso gli animali era davvero molto semplice. Oltretutto, a livello estetico, sono realizzati in modo così raffinato che agli occhi dei bambini risultano subito molto accattivanti.
Il laboratorio consisteva in una caccia agli animali all’interno della chiesa a partire da piccoli dettagli che i bambini dovevano ritrovare negli affreschi, nei dipinti o nelle tavole. Si passava così dal dettaglio all’animale e, successivamente, dall’animale al simbolo: che cosa significava quell’animale? Qual è il suo significato per noi oggi?    
Il simbolo grafico portante del laboratorio era il pappagallo.

Le ragioni sono molteplici: è bellissimo; è un animale caro ai bambini, anche in virtù delle sue numerose versioni animate; ha un significato molto importante, poiché simboleggia la Vergine (è l’unico animale capace di chiamarla, poiché riesce a dire “ave”); ha un valore storico, perché, nella raffigurazione, ha accanto un’altra immagine della Madonna sovrastata da un globo terrestre privo delle Americhe: il confronto tra i due affreschi è una narrazione della scoperta dell’America (la rappresentazione di un pappagallo non può che essere successiva al 1492). Il pappagallo è un esempio di come, attraverso questo gioco, si potesse parlare di arte, di storia, di storia dell’arte, di iconografia e di simbologie. In generale, il laboratorio era il tentativo di tradurre e decodificare il linguaggio attraverso gli animali.


Qual è stato il passaggio da una ricca simbologia come quella che si ritrova nella realtà iconografica di una chiesa al bestiario graficamente più essenziale che conduce infine anche alla lettera?

JP: Ci sono due motivazioni più o meno consce. 
La prima è formale. Confrontandomi con questo repertorio iconografico molto ricco ed eterogeneo, estremamente importante tanto a livello espressivo quanto a livello storico, era molto difficile scegliere cosa rappresentare e come farlo. Ho deciso perciò di lavorare per sottrazione, approcciando quest’iconografia da una prospettiva molto sintetica e minimale, che aprisse alla possibilità di diversi significati. Volevo eliminare tutta quella parte che avrebbe frenato l’immaginazione dei lettori: se io vedo un pappagallo preciso, mi immagino quel pappagallo, ma se vedo un segno che semplicemente mi ricorda alcuni minimi elementi di un pappagallo, posso inventarmi tutto il resto. Questo pensiero mi ha portato a optare per un tratto molto semplice, come fosse disegnato a penna su fondo bianco, e a non usare il colore, che, piuttosto, chiedo di aggiungere a chi legge, a volte mentalmente, altre volte anche fisicamente. Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che tutte le pagine sono pensate perché ci si possa scarabocchiare sopra: è l’invito che faccio con questa scrittura minimale (in alcuni punti più esplicito che in altri, come dove si conta e alcuni numeri saltano); insomma, desideravo che il libro fosse anche un quaderno. 
In secondo luogo, volevo togliere di mezzo l’immagine. Lavorando sulla relazione tra la parola e l’immagine, ho cercato di capire quale fosse il gap. Chiedo ai lettori di riempirlo creando una connessione tra la lettera e l’immagine, che a volte può nascere da un elemento grafico che ricorda una forma, altre volte da un suono. Mi interessava giocare con il potenziale generativo dell’alfabeto per la creazione di rappresentazioni.

Vorrei menzionare infine un ultimo elemento che mi ha motivato moltissimo in questo lavoro, ovvero l’idea che il progetto fosse radicato in un luogo e territorio specifico ma aspirasse a offrirsi come esperienza universale, destinata a un pubblico più ampio. Il tentativo di unire uno sguardo locale a un valore più generale per trasportare una connessione è un aspetto importantissimo, su cui lavoro da molti anni nella didattica e in tutti gli ambiti possibili. Farlo con lo strumento del racconto e dell’illustrazione era qualcosa che non avevo mai provato e che si è rivelato essere più immediato e diretto dei mezzi che avevo sperimentato finora. Mi piacerebbe diventasse un format, perché sono tantissimi i luoghi che, raccontati, possono interessare tutti, non solo chi li abita.

AL: Questo aspetto ha incuriosito anche me sin dall’inizio. Quando si parla di iconografia, essere a Mercatello o a Roma non cambia, perché le simbologie sono le stesse per tutti. In questo caso si tratta di una simbologia cristiana: può far parte di un’epoca storica precisa, ma non si distingue particolarmente da quella che si può trovare in Umbria o in Emilia. E questo vale per tutti i luoghi in cui, per un certo periodo, si è parlato e usato quel linguaggio.
Il libro è una forma di esperimento. Lo è perché, nel farlo, ci siamo messi in gioco. Lo è perché ci piacerebbe portare avanti altre esperienze simili, sempre con la stessa modalità: rintracciare un dettaglio, scovare un linguaggio che non c’è più e rispolverarlo con nuovi occhi.

Alice Lombardelli è laureata in Conservazione dei Beni Culturali e si occupa in modo specifico di valorizzazione del patrimonio e di politiche culturali. Negli anni si è specializzata in didattica museale, divulgazione del patrimonio e fundraising per la cultura. Attualmente, grazie alla collaborazione con arturo, società che lavora nell’ambito dello sviluppo di un nuovo metodo di conservare le collezioni tramite nuovi media, è content creator e autrice per la rubrica Collezionare&Conservare del blog Collezione da Tiffany. Per il comune di Urbino è funzionario nel settore cultura.

Jonathan Pierini è type designer e progettista grafico. Ha ottenuto un diploma di laurea triennale presso ISIA Urbino e un master in Type & Media presso KABK, in Olanda. A Londra ha lavorato presso Dalton Maag Ltd e dal 2011 al 2017 è stato ricercatore e professore aggregato presso la Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano. Da settembre 2017 è direttore di ISIA Urbino. È co-direttore della rivista Progetto Grafico edita da AIAP.