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Mi fingo fungo

Intervista ad Anna Tsing

Il mondo in cui viviamo ci pone di fronte a sfide sempre più impegnative. Come faremo a prendercene cura? Come faremo, noi stessi, a sopravviverci? Come faremo a comprenderlo?
Forse, è necessario cambiare punto di vista e cominciare a ragionare come creature che crediamo molto diverse da noi. Anna Tsing ci suggerisce di fare come i funghi e in questa intervista ci spiega perché.

Nel libro parli di sopravvivenza in relazione all’idea di una collaborazione. Cosa intendi esattamente?

Negli Stati Uniti, troppo spesso, la parola sopravvivenza equivale a sopravvivenza individuale. Si pensi a tutti quei film apocalittici in cui c’è un eroe che si scontra con il resto del mondo per sopravvivere. Alla fine, al massimo, porterà in salvo la sua famiglia, mentre il resto dell’umanità rimane esclusa. Questo non è un buon modo per sopravvivere. È una mentalità che ferisce l’umanità: solo se è collaborativa, la sopravvivenza merita di essere chiamata così.
Ognuno di noi è intrinsecamente intrecciato con gli altri. E non solo siamo indissolubilmente legati ai membri della nostra famiglia o agli altri esseri umani, ma anche alle piante, agli animali o ai funghi, che sono così diversi da noi. I funghi matsutake incarnano perfettamente l’idea della sopravvivenza collaborativa – ecco il motivo per cui li ho scelti come soggetto del mio libro [Tsing, Il fungo alla fine del mondo, Keller, 2021]. La loro esistenza è legata indissolubilmente alla presenza dell’altro, un altro che, nel loro caso, è rappresentato dalle piante. Se, ad un certo punto, i funghi dicessero: «d’ora in poi, sopravvivo solo io: gli altri possono anche morire», sarebbero loro i primi a non sopravvivere, visto quanto le loro radici e il loro tessuto sono intrecciati con quelli dell’albero. Albero e funghi danno vita una struttura collaborativa, in cui non ci sono più due enti separati, da un lato i funghi e dell’altro l’albero, ma due enti interdipendenti. L’ideale sarebbe che anche noi esseri umani ci nutrissimo delle nostre differenze per realizzare una sorta di sopravvivenza collaborativa, in cui beneficiamo delle unicità dell’altro, sia esso un essere vivente o meno. Il grande problema consiste proprio in quell’ideologia che pone il singolo contro tutto e tutti, e che è alla base delle violenze inaudite perpetrate sia verso altri umani sia verso altri non-umani. Negli anni ’50, i racconti di fantascienza suggerivano l’idea che l’uomo sulla terra potesse anche distruggere tutto, provocando guerre o disastri ambientali, perché tanto avrebbe sempre avuto una via di fuga: una bella nave spaziale, per esempio, pronta a portarlo in nuovi luoghi inesplorati da colonizzare, lasciando alle sue spalle un mondo ridotto in cenere e rovine. È molto preoccupante sentire il riemergere di queste fantasie: di come le  élite (ovviamente la fuga non è consentita a tutti, ma solo a un ristrettissimo gruppo di persone) stiano ipotizzando una loro possibile fuga verso altri luoghi extra-terrestri. Quello che però non capiscono è che anche noi esseri umani, proprio come i funghi, siamo interdipendenti. Lo siamo nei confronti degli altri esseri umani, delle piante, degli animali, dei funghi e dei batteri. Tutte le forme di vita contribuiscono a tenerci in vita ed è nostro dobbiamo sopravvivere in modo collaborativo. Dobbiamo fare i conti con un pianeta ormai irreparabilmente ferito e devastato, e la soluzione non è scappare a bordo di un razzo. Piuttosto, dovremo imparare a lavorare insieme a partire dalle differenze che esistono tra noi umani e con i funghi, convincendoci del fatto che c’è sempre, tra qualsiasi tipo di essere, un qualche tipo di parentela, che deve essere riconosciuto e rispettato.


Nel tuo libro, ponendo l’accento sulla relazione tra una vita umana e quella di un fungo, sottolinei l’importanza dell’incontro. Perché lo ritieni così importante?

“Incontro”, per me, è un concetto che ha diversi significati. Dal punto di vista filosofico, mi unisco ai molti filosofi europei che sostengono che tanto le persone quanto gli esseri non umani sviluppano la loro capacità di agire nel mondo proprio nella relazione e che i modi in cui tutti noi siamo nel mondo dipendono dagli incontri che facciamo. 
Un altro significato di “incontro” si basa sulle differenze. Ad esempio, si pensi a un antropologo che fa ricerche sul campo in un luogo sconosciuto: quell’incontro è così importante non solo perché è imprevedibile, ma anche perché è disordinato. Le cose non vanno nella direzione prevista e per questo, pur non volendolo, il nostro desiderio di mettere ordine ci porta a cadere in una facile stereotipizzazione delle altre culture. Penso che il senso dell’incontro stia proprio lì, in quel disordine. Possiamo rendercene conto anche ogni volta che incontriamo nuove persone, in quell’esperienza che è un misto di piacere e di terrore: un’avventura piena di insidie. In questo senso, “incontro” è, l’inciampo negli altri, un intessere relazioni dove il disordine è costituzionalmente pervasivo. E noi dovremmo imparare a stare in queste situazioni più difficili, anziché illuderci di vivere in un mondo perfetto, che siamo solo noi a proiettare.


Ogni essere deve affrontare infiniti cambiamenti. Pensi che sia per gli insegnanti? Credi che i bambini siano costituzionalmente più adatti a vivere questa imprevedibilità?

Questa domanda mi ha fatto riflettere molto. Naturalmente, tutti amiamo il senso di meraviglia e curiosità che hanno i bambini ed è ciò che rende l’insegnamento una cosa grandiosa. Ma non voglio che questo possa bloccare il nostro apprezzamento anche per le persone di età diverse. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli anziani sono davvero ignorati, mentre è necessario rispettare la loro creatività e resilienza. Al contrario, a volte, vengono semplicemente trasportati in case di cura o in altri luoghi per tenerli tranquilli. Penso che, tornando a quanto dicevamo in merito alla sopravvivenza collaborativa attraverso le differenze, sarebbe fantastico trovare un modo attraverso cui i bambini possano avere più contatti con persone di età diverse, compresi gli anziani, perché anche gli loro hanno un tipo di creatività e resilienza da valorizzare. Quindi mi piacerebbe vedere un tipo di educazione in cui consentiamo agli anziani e ai bambini di lavorare insieme, per sperimentare nuovi modi per vivere in un mondo incerto come il nostro.

Anna Lowenhaupt Tsing è docente di antropologia presso la University of California, Santa Cruz, e Niels Bohr Professor presso la Aarhus University in Danimarca, dove codirige l’aura (Aarhus University Research on the Antropocene). È autrice di Friction e In the Realm of the Diamond Queen, entrambi pubblicati da Princeton University Press.