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Nascere imparando

Intervista ad Antonella Capetti ed Erika Ripamonti

Quello che segue è il risultato di un duplice incontro, con una maestra di scuola primaria, Antonella Capetti, e un’insegnante di pianoforte, Erika Ripamonti. Il libro e lo strumento, la lettura e la musica sono l’oggetto del loro mestiere, quanto intendono trasmettere sotto forma di capacità e di passione. 

È possibile insegnare ad amare la lettura così come si insegna a leggere? È possibile favorire la nascita della capacità esecutiva e, al tempo stesso, l’insorgere di un sempre maggiore desiderio di suonare e di conoscere la musica?

Con Antonella Capetti ed Erika Ripamonti abbiamo provato a comprendere che cosa voglia dire nascere imparando: imparando a fare, a sentire, ad amare e a entusiasmarsi. 

C’è qualcosa, secondo voi, che accomuna il nascere e l’imparare?

C: Sì. Credo che nascere e imparare siano due modi di venire al mondo, di aprirsi al mondo. Si può farlo in svariate condizioni, che spesso, ma non sempre, fanno la differenza.


R: In ambito musicale, ma, in generale, in ambito artistico, di solito si tende a evidenziare le differenze tra il nascere e l’imparare. È ciò che accade quando si cercano le differenze tra il talento, che è una predisposizione, un’innata capacità, e il frutto dell’apprendimento, quindi dello studio, della disciplina. Tradotti in questi termini, il nascere e l’imparare sono visti come processi complementari ma dicotomici nel processo di acquisizione di una capacità. Ci sono moltissimi studi che cercano di determinare che cosa sia il talento, ma a oggi si tratta di ipotesi: non siamo in grado di stabilire esattamente quanta parte della capacità, del virtuosismo, sia dovuta al talento innato e quanta al processo di apprendimento. In ambito musicale, perciò, è interessante, proprio perché insolito, sottolineare gli aspetti che accomunano il nascere e l’imparare e per prima cosa direi che entrambi sono processi lunghi, che si dispiegano nel tempo. Siamo abituati a pensare alla nascita come a un evento istantaneo che prima non c’era e adesso c’è, ma non è così: lo sappiamo anche affidandoci alla scienza. La nascita, così come qualunque processo creativo, avviene attraverso un percorso che si dispiega nel tempo e che richiede una serie di passaggi, alcuni dei quali siamo in grado di isolare in maniera razionale, altri che svolgiamo senza di fatto accorgercene. Allo stesso modo l’apprendimento comporta una serie di passaggi, dalla motivazione al metodo, che portano a imparare, cioè ad acquisire determinate competenze. Nel loro essere entrambi processi, potremmo dire che di fatto sono la stessa cosa.

Se insegnare significa far sì che una capacità possa nascere, in che misura essa dev’essere guidata, accompagnata o lasciata libera di sorgere spontaneamente?

C: Questa domanda si ricollega all’avverbio che ho utilizzato per rispondere alla precedente domanda, quando dicevo che le diverse condizioni in cui ci si apre al mondo spesso fanno la differenza. Vorrei ricorrere all’immagine del seme, per spiegarmi meglio. Credo che in ciascuno di noi ci siano, in germe, svariate capacità e potenzialità, che per germogliare nel migliore dei modi hanno bisogno di un terreno fertile, di nutrimento e di cure. E tutto ciò spetta agli adulti, che sono responsabili della crescita di ciascun bambino e di ciascuna bambina. Mi sento anche di dire, però, che è altrettanto vero che, fortunatamente, ci sono situazioni in cui il terreno non è per nulla fertile o in cui mancano il nutrimento e la cura e in cui, nonostante tutto, ciò che c’è riesce ugualmente a germogliare. Mi viene sempre in mente la parabola evangelica del seme e del seminatore: ci sono casi in cui un seme è seminato anche su un terreno che sembrerebbe il più impervio e il più ostile possibile, ma i frutti sono talmente resistenti, caparbi e generosi che nascono lo stesso.


R: Qui assume una grande importanza, soprattutto per quanto riguarda le materie di ambito artistico, il discorso relativo alla motivazione. Ogni società vuole che i suoi membri acquisiscano alcune capacità, ritenute fondamentali: per noi, per esempio, saper leggere e scrivere è ritenuta una competenza necessaria alla sopravvivenza sociale. In questo caso la motivazione estrinseca è fortissima, perché c’è un obbligo sociale ad apprendere queste competenze. Per le materie di ambito artistico questo discorso non vale: la maggior parte delle persone è in grado di vivere serenamente senza conoscere le regole fondanti del linguaggio musicale o senza saper suonare uno strumento. Che cosa spinge, allora, una persona a intraprendere questo tipo di percorso, che peraltro richiede fatica, disciplina ed esercizio? Si ricorre spesso, in questo caso, a una parola che pronunciamo facilmente, ma il cui significato non è scontato: passione. Come nasce la passione? Essa viene dall’interno, quindi deve essere lasciata libera di nascere. La passione dovrebbe nascere spontaneamente, ma non può nascere se non a partire da un incontro, che non avviene sempre spontaneamente: con la musica in generale magari sì, ma non nello specifico con un particolare strumento, con un particolare tipo di linguaggio, con un determinato genere musicale. Credo che si inserisca qui la figura del bravo insegnante (o educatore: sono tante le figure formative che precedono l’insegnante di pianoforte!), perché il bravo educatore è colui che “trasmette” la passione: la passione non si può insegnare e l’unica strada percorribile è mostrare come sia nata la propria, ovvero come sia nato, nel mio caso, l’amore per la musica e per il mio strumento. Non è affatto facile, perché ai nostri stessi occhi la risposta a questa domanda, oltre che complessa, è raramente razionalizzabile, eppure credo che in questa operazione risieda una prima guida. Ci sarebbe poi tutto un altro discorso da fare per quanto riguarda la disciplina, perché quando si impara a suonare uno strumento, il tipo di studio si avvicina a quello richiesto da uno sport: è uno studio che si basa di più sulla pratica, sull’esercizio, sulla ripetizione, che ha come fine quello di creare degli automatismi e che può rivelarsi faticoso, non sempre interessante e talvolta noioso. È un procedimento che spesso va stimolato e, in questo senso, l’accompagnamento e la guida devono essere presenti, a patto che naturalmente alla base ci sia una motivazione forte.

Ogni volta che si impara qualcosa di nuovo, è come se si venisse al mondo una volta di più, diventando capaci di osservare la realtà che ci circonda con nuovi occhi. Quali opportunità offre, da questo punto di vista, l’imparare a leggere e a frequentare il mondo musicale o suonare uno strumento?

C: Ogni volta che in prima accompagno i bambini e le bambine nell’apprendimento della lettura e della scrittura, mi pare, in un certo senso, di assistere a una magia. E questo è strano, perché in realtà si tratta di un automatismo, ovvero la decodifica della lingua scritta. In generale, se rimaniamo sull’automatismo e non ci spingiamo alla comprensione, si tratta di un processo abbastanza facile, a meno che, ovviamente, non ci sia un disturbo specifico dell’apprendimento. Ciò che sorprende è che questo automatismo può davvero fare la differenza per tutto il corso della propria vita e, soprattutto, può trasformarsi in passione. Io sono la testimonianza evidente che non sempre la cura, il nutrimento e tutto quello che si può fare per coltivare una passione dia poi dei frutti: io, che sono sempre stata una grande lettrice, ho due figli e il maggiore, a cui regalavo moltissimi libri, con cui passavo moltissimo tempo a leggere e che, quand’era piccolo, portavo in tutte le biblioteche, ha sempre amato ascoltare le storie, ma non è mai diventato un lettore; la minore, alla quale ho dedicato meno tempo da questo punto di vista, è sempre stata ed è ancora una grande lettrice. Perciò evidentemente conta moltissimo ciò che c’è dentro ogni bambino e ogni bambina. Lo dico sempre a scuola anche ai bambini: io ho una grande passione per la lettura e faccio di tutto per stimolarla in voi, ma non è detto che sia trasmissibile. L’importante, secondo me, però, è che si abbia una passione: non importa che sia la lettura, il calcio, il ciclismo, la montagna, l’arrampicata… Va bene qualsiasi cosa, purché si abbia una passione, perché, parafrasando la Bisutti, la passione salva la vita.


R: L’opportunità principale che si ottiene nell’imparare a suonare uno strumento o a comprendere le regole del linguaggio musicale deriva dal fatto che, appunto, la musica è un linguaggio e, come ogni linguaggio, ha possibilità espressive che sono sue proprie e che altri linguaggi non possiedono. Apprendere un nuovo linguaggio significa guardare la realtà che ci circonda con occhi nuovi: nel momento in cui do un nome a un oggetto sto svolgendo un’operazione di comprensione e interazione con esso. La musica è un linguaggio che permette un’interazione di tipo diverso. Non posso dire più profondo e non posso nemmeno dire universale, perché anche questo non è vero: è un linguaggio profondamente radicato nella società che lo produce. Appunto per questo comprenderne le regole e il funzionamento ci dice molto di più sulla società che l’ha prodotto e ci permette di comunicare in maniera più efficace con chi appartiene a questa società. Cosa non meno importante: io appartengo a questa società, quindi oltre a essere il soggetto pensante sono anche l’oggetto di questa interazione e comprendere il linguaggio musicale (anche suonando uno strumento, perché no?) è una maniera per riuscire a entrare più profondamente in connessione con me stesso, oltre che con gli altri. È un linguaggio che riesce a indagare il mondo delle emozioni in maniera e a livelli diversi dal nostro linguaggio verbale: è un linguaggio che mi permette di sondare aspetti di me che le parole non riescono a esprimere. In questo senso è un linguaggio che ci permette di comprendere meglio noi stessi, il mondo in cui viviamo, e di comunicare aspetti che le parole non sono in grado di esprimere. A livello epistemico, inoltre, sarebbe bene non dimenticare che le leggi della fisica acustica (tra le prime a essere indagate: si pensi a Pitagora e al suo interrogarsi sul perché e come una corda producesse un determinato suono), oltre a governare il mondo dei suoni, permettono di comprendere il funzionamento della natura.

A leggere e a suonare si impara: sono capacità da acquisire, ma anche passioni da coltivare. Come si conciliano, nella tua esperienza di insegnante, la nascita di una competenza e la nascita di una passione?

C: Ecco, io penso che alla base della passione, più che l’attitudine, che conta tantissimo, debba esserci la curiosità: la curiosità di continuare a esplorare quell’attitudine, di metterla alla prova e di provare ad andare oltre i tuoi limiti, di andare oltre quello che è già stato fatto. Ieri in classe abbiamo letto La strada che non andava in nessun posto di Rodari, che racconta il desiderio di essere davvero i primi che provano a esplorare strade sconosciute.

La curiosità mi sembra proprio la cifra necessaria per sviluppare le passioni. Quindi, a maggiore ragione, la passione deve essere prima di tutto quella dell’adulto: l’adulto per primo deve essere curioso. È questa la molla: il bambino e la bambina che vedono un adulto curioso si incuriosiscono, secondo me. Se vedono un adulto appassionato, si appassionano. Magari, poi, avranno attitudini e passioni diverse, ma è importante che vedano l’atteggiamento, che diventa permeante, crea le condizioni perché un bambino o una bambina dicano: «Sì, con la passione e la curiosità si vive meglio!». Si deve creare per i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze un ambiente ricco, ma non sovrabbondante. Ecco, la sovrabbondanza mi fa paura: troppi stimoli credo siano eccessivi e non permettono un’attenzione adeguata. Da parte dell’adulto è fondamentale infatti anche l’attenzione. Purtroppo mi sembra che a questi bambini e bambine manchi tanto l’ascolto: non siamo più capaci di ascoltarli, perché siamo distratti da mille cose. Non voglio che suoni come una critica: il mondo in cui viviamo non ci permette i tempi distesi che soli ci permetterebbero di ascoltare davvero i bambini. Io sono convinta che i bambini rispecchiano il mondo adulto, che va troppo di fretta e non ha più i tempi di attenzione adeguati. Ecco, io credo che quello che serve in assoluto per assecondare e incoraggiare la nascita di una passione in un bambino o in un ragazzo sia proprio ascoltarli, dedicare loro del tempo e dell’attenzione e fornire loro un ambiente ricco di stimoli, che però non sia eccessivo e non si trasformi in sovrabbondanza.


R: La competenza e la passione sono due aspetti che fanno parte di uno stesso percorso e di uno stesso processo. C’è un circolo virtuoso che si innesca quando ci si sente motivati a imparare e dunque si studia, ci si applica, si ottengono risultati, che vanno a loro volta ad alimentare quella motivazione e ad accrescere la passione. Il vigilare sul fatto che questo percorso rimanga sempre virtuoso (è un attimo invertire la tendenza: basta non applicarsi, i risultati non arrivano, ci si scoraggia e la motivazione diminuisce, dunque ci si applica sempre meno) è compito di un buon insegnante: spetta a lui andare di volta in volta tanto ad alimentare l’aspetto motivazionale, facendo leva sul senso, sulla fiamma che brucia dentro l’allievo, quando i risultati stentano ad arrivare perché c’è un’oggettiva difficoltà che può essere fronteggiata solo con molta pazienza, quanto a esortare la necessità dell’esercizio, affinché i risultati arrivino e la pigrizia non porti alla demotivazione.  Quanto alle competenze acquisite, credo sia fondamentale porsi degli obiettivi. Tuttavia, è bene rendersi conto che il percorso di apprendimento dura per tutta la vita: non c’è nulla di acquisito nel senso di traguardo raggiunto definitivamente. Tanto la passione quanto la competenza vanno coltivate per tutta la vita attraverso un continuo esercizio: “bisogna” farlo e allo stesso tempo si deve “volerlo”. Lo studio e la passione, la disciplina e il desiderio di alimentano a vicenda. Credo che “coltivare” sia una parola particolarmente azzeccata, perché, oltre a sottolineare l’aspetto di continua cura che è da rivolgere a questo sapere prezioso, rimanda anche allo “sporcarsi le mani”, al sudore, alla fatica necessari per veder crescere i germogli, le piante, i frutti. 

In base alla tua esperienza, quale suggerimento concreto daresti a un insegnante o a un genitore che vogliano assecondare o incoraggiare la nascita di una passione in un bambino o in un ragazzo?

R: Qui ci sono due atteggiamenti possibili, che hanno dato origine a due scuole di pensiero. Da un lato abbiamo un atteggiamento spronante, che oscilla tra l’accompagnamento e il controllo continuo; dall’altro si tende a incoraggiare l’autonomia e la spontaneità nel processo di apprendimento. Non saprei, così in astratto, quale delle due vie consigliare, perché è evidente che entrambe portano con sé vantaggi e svantaggi. La prima porterà a ottenere buoni risultati in poco tempo, che andranno ad alimentare la motivazione; d’altro canto, si apre il rischio di una forzatura, ovvero c’è il pericolo di andare contro la volontà dell’allievo. Qualcosa del genere accade spesso nel virtuosismo, nel concertismo e, in particolare, nel pianismo, che è un mondo molto spietato: le esibizioni degli Enfants Prodiges ci mostrano risultati inconcepibili, che infatti strabiliano il pubblico, ma dovremmo chiederci a quale prezzo siano stati ottenuti. Non si deve trascurare la possibilità che l’atteggiamento di sprone continuo non sia sfociato nel ricatto psicologico, perché il passaggio è molto facile: i bambini desiderano la stima e l’affetto degli adulti per loro significativi – i genitori, in primis, ma anche l’insegnante e, in particolare, quello di strumento che, accompagnandoti per tanti anni, diventa una figura di riferimento importantissima – e spesso farebbero di tutto per sentirsi apprezzati. In questo modo, cedendo al ricatto, i risultati arrivano in pochissimo tempo, ma nel lungo periodo, quando il meccanismo viene svelato e l’allievo si rende conto di aver agito contro la propria volontà, si deve sperare che sia rimasta la passione e, soprattutto, che non siano stati provocati danni ulteriori ancora più gravi. 

La seconda via, quella più rilassata, porta allo stesso modo vantaggi e svantaggi. Il più grande vantaggio corrisponde all’opposto della situazione critica che abbiamo appena descritto: lasciare che una passione cresca liberamente, che l’allievo trovi ed elabori dentro di sé la struttura motivazionale e logistica attraverso la quale organizzare il proprio studio e alimentare il proprio amore per lo strumento tiene lontano il pericolo di forzare la sua volontà. D’altra parte, è inutile negare che alcuni aspetti dello studio richiedono applicazione e costanza ed è molto facile abbandonarsi alla pigrizia, che coglie tutti noi in alcuni momenti della nostra vita: se lasciamo libertà anche a questa di propagarsi, rischia di spegnere la fiamma della motivazione. 

Perciò, per tornare al suggerimento che mi sento di dare, vorrei riprendere quanto dicevo prima in merito al circolo virtuoso che deve innescarsi tra motivazione e disciplina, tra passione e studio: l’insegnante deve vigilare affinché questo processo rimanga virtuoso e lo deve fare nel concreto della sua esperienza, a partire dalla sua conoscenza dell’allievo, dalla comprensione dei suoi punti di forza e di debolezza caratteriali e, di conseguenza, coniugare le proprie scelte di tipo educativo; non c’è un comportamento univoco, da consigliare e applicare a priori. Mi rendo conto, nella mia esperienza di insegnante, che quanto dico è una delle cose più complesse, perché la possibilità di fallimento è molto concreta. Tuttavia, credo che si sia sulla buona strada se si è attenti ad ascoltare: il rapporto didattico deve basarsi sulla comunicazione e sul continuo e reciproco ascolto e comprensione.

Vorremmo chiederti due regali: quali sono i tuoi libri del cuore?

C: Ne ho scelti due, ma ho fatto molta fatica. In ogni caso, il primo è La gioia di scrivere della Szymborska: è il libro del comodino, è sempre lì. Quando ogni tanto sono troppo stanca per leggere, lo apro a caso e… a dire il vero, non è poi così a caso perché tra le pagine ci sono moltissime orecchiette. Quindi apro, leggo e non è che trovo risposte, perché io non leggo tanto per trovare risposte: mi piace pensare che leggo per farmi altre domande, che è un po’ il senso del lavoro che ho fatto con Marta Vitali nella produzione del libro di testo. Leggo a volte per trovare consolazione e dico: guarda com’è stata capace di raccontare esattamente quello che anch’io ho provato in quella situazione, ma che non sarei mai in grado di raccontare così. Il secondo è Io sono il cielo che nevica azzurro di Giusi Quarenghi, per Topipittori. Io amo moltissimo l’autobiografia d’infanzia. Fino a pochi anni fa c’era soltanto Quando avevo la tua età, che è un vecchio libro, credo dei Delfini Bompiani: tutte le antologie scolastiche, nei libri di testo, quando dovevano riportare autobiografie d’infanzia, portavano brani tratti da questo libro, che, intendiamoci, io ho molto apprezzato, poiché si trattava di scrittori che raccontavano la loro infanzia. Finché non hanno cominciato a uscire i libri della collana “Gli anni in tasca” dei Topipittori e io me ne sono innamorata. Ce ne sono tantissimi che amo, ma, su tutti, questo della Quarenghi è quello che preferisco. Innanzitutto perché… beh, lei è lei: qualsiasi cosa faccia, ha una sorta di tocco magico. Mi ritrovo tantissimo in molte cose che racconta: quest’infanzia montanara rude, questi genitori di poche parole e di grandi fatti. Mi ci rivedo. Infine, la sua precisione nel linguaggio, la precisione della poesia che nella Quarenghi trovi anche e quando scrive in prosa. Ora che ci penso, però, vorrei aggiungere anche un terzo titolo, quello del libro che sto leggendo adesso, ovvero il libro della Roghi su Rodari. Si legge proprio come un romanzo. Io conoscevo Rodari da insegnante, ma leggerne la vita sotto forma di romanzo devo dire che è molto, molto bello.

Vorresti raccontarci come è nata in te la passione per la musica e, in particolare, per il pianoforte?

R: Dovrei menzionare uno dei primi ricordi della mia infanzia: un momento di incontro. I miei genitori mi avevano portato ad assistere a un concerto per organo in una chiesetta sperduta nelle valli bergamasche. Ricordo in maniera vivida questa sensazione uditiva ed emotiva che ho provato nel sentirmi circondata da tutti quei suoni. La cosa che forse mi colpì di più, però, al di là del momento estatico che mi portava ad ammirare quella bellezza, fu vedere le mani dell’organista che correvano su e giù per le tastiere e il conseguente rendermi conto che l’artefice di tutta quella bellezza era una persona. Non era la prima volta che venivo a contatto con la musica e nemmeno la prima volta che mi trovavo di fronte a qualcosa di così bello da rimanerne stupiti o folgorati. Ma in quel momento, rendendomi conto che era una persona a realizzare, a creare quella bellezza, capivo che avrei potuto farlo anch’io, che quella persona avrei potuto essere io. Ecco, sì: in quel momento è nata in me una determinazione a provarci. Una determinazione che effettivamente si è mantenuta viva nel corso del tempo, finché i miei si sono resi conto che era un desiderio perdurante oltre che autentico e mi hanno accontentato facendomi prendere lezioni di pianoforte.  Ho quindi iniziato a studiare, a esercitarmi suonando il pianoforte e allora mi sono innamorata di questo strumento: mi piaceva che le 7 note potessero combinarsi insieme e creare le armonie e che io con le mie mani potessi creare i colori con cui fare la dinamica: suonare forte, suonare piano, dunque trasmettere e comunicare cose diverse. Sono questi i momenti che vedo all’origine della mia passione per la musica e, in particolare, per il pianoforte. È stato l’inizio di una relazione, di una storia d’amore, che peraltro dura da tutta la vita ed è continuamente alimentata. Non posso dire che sia un amore che cresce sempre più, non in maniera lineare: è una storia fatta di alti e bassi, di momenti di gioia incontenibile e felicità massima, ma anche di profondo scoraggiamento o di ansia o di tristezza. Beh, proprio come una storia d’amore. Però l’universo di cui parlo non contiene solo me e il pianoforte, anzi! Il modo in cui il pianoforte mi ha permesso di relazionarmi al mondo a me circostante è parte integrante della relazione, della gioia e della soddisfazione che nutro nel viverla. Penso agli insegnanti che ho avuto: sono state persone in grado di capirmi e trasmettermi il loro amore, la loro fiamma, hanno saputo alimentarla e hanno saputo fare in modo che anche io arrivassi a provare le stesse emozioni, senza le quali – posso ben dirlo – la mia vita sarebbe vuota. Non posso immaginare un’esistenza senza questo rapporto bellissimo. E poi c’è la relazione con tutte le altre persone: il pubblico dei concerti e gli altri musicisti con cui ho collaborato, con cui mi sono divertita. Il mio compagno è un musicista e ci siamo conosciuti suonando insieme. Quella col pianoforte è una relazione che mi regala dei momenti di emozione fortissima, che mi permette di comunicare con me stessa e in maniera inedita… in un modo che trovo non abbia uguali.

In che modo la padronanza delle parole, lette o scritte, può aiutare la nascita di un pensiero autonomo e libero?

C: La padronanza delle parole, di un lessico molto adeguato, preciso e puntuale aiuta la nascita di un pensiero autonomo e libero. Mi fa un po’ paura quando qualcuno dice “Non ho parole”. Io credo che in alcune situazioni molto complicate, molto difficili, siamo obbligati a trovare le parole e dobbiamo aiutare i bambini a trovarle. Perché trovare le parole permette di dare voce a quello che abbiamo dentro di noi. Io ho molta paura dei bambini, delle bambine, degli adulti e soprattutto degli adolescenti che non trovano le parole e danno sfogo a quello che hanno dentro attraverso altri canali. Perché se tu invece padroneggi la parola e sei capace di dare un nome a ciò che ti agita e che vive dentro di te, questo cresce e non sempre in modo sereno e positivo. Se tu sei in grado di dargli un nome, gli dai una sorta di cittadinanza. Trovi un modo di governarlo, mi viene da dire. Per questo la padronanza del linguaggio e del lessico ci aiuta. Oltre al fatto che, come ben sappiamo, la padronanza del lessico e del linguaggio ci aiuta a sviluppare il senso critico, l’interpretazione di ciò che viene detto, l’accettazione e la non accettazione della critica e di tutto quello che ci viene detto: se andiamo a fondo di ciò che ci viene detto e siamo capaci di comprenderne a pieno il significato, riusciamo anche a rielaborarlo e a ragionarci sopra, facendocene un’opinione.

In che modo la familiarità con l’esecuzione musicale può aiutare la nascita di un sentimento collaborativo?

R: C’è un’esperienza tra musicisti che può essere il momento che più di tutti stimola la nascita di un sentimento collaborativo, che è la musica d’insieme: dal duo da camera alle grandi orchestre. È un’esperienza unica, che mette in campo una complessità di situazioni. È un’esperienza di totale empatia musicale con chi hai accanto, perché quando suoni con qualcuno devi sempre stare in ascolto e devi sempre cercare di farti capire. Questa dinamica, questo dialogo avviene nel non verbale, negli sguardi, nei respiri. È fondamentale il riferimento al non verbale, che riesce a toccare anche sfere emotive diverse rispetto a quelle che riusciamo a descrivere con le parole. La collaborazione è un sentimento che è difficile da inquadrare e da inscrivere nelle solite categorie: noi la immaginiamo come una macchina ben oliata, in cui ciascuno fa il suo compito. Non è così semplice, perché svolgere il proprio compito non significa meccanicamente riprodurre un’azione, quindi anche una performance immutabile e sempre uguale a se stessa, ma riprodurre un discorso, servirsi di un linguaggio e dunque essere sempre protesi verso l’ascolto, la comprensione dell’altro e la comunicazione efficace di sé. Vi è inoltre l’aspetto dell’attenzione condivisa rispetto a un sistema di regole: questo tipo di collaborazione è la stessa che dovremmo trovare anche nel contesto della vita sociale e collettiva. Il duo, così come l’orchestra, riesce a suonare insieme solo se le persone aderiscono a un sistema condiviso di regole, che, nel nostro caso, sono le regole della teoria musicale. Le regole della teoria musicale sono codificate e spesso sono studiate con un notevole dispendio di sforzo, ma è necessario conoscerle al fine di riuscire a interagire e suonare insieme. Esattamente come per la collettività civile.


Antonella Capetti è nata a Grosio, in provincia di Sondrio, il 25 settembre 1967. Ha cominciato a leggere prima dei 5 anni e non ha più smesso. A 20 anni ha iniziato a insegnare nella scuola dell’infanzia, dov’è rimasta per 17 anni. Poi è passata alla scuola primaria, dove dal 2004 insegna italiano. La passione per la lettura, e soprattutto per gli albi illustrati, caratterizza da sempre il suo lavoro: dal 2013 le attività con i suoi alunni sono quotidianamente documentate sul blog Apedario, in cui racconta la sua scelta di insegnare a leggere e scrivere utilizzando gli albi. Ha pubblicato filastrocche e brevi storie. Ma il libro di cui fino ad ora è più orgogliosa è autoprodotto e raccoglie 108 poesie scritte e scelte dai suoi 54 alunni.

Erika Ripamonti – classe 1986, milanese di nascita, sestese per scelta. Maturità classica, Facoltà di Giurisprudenza (non si sa mai), Diploma di Conservatorio, è attualmente docente di Pianoforte principale presso la Civica Scuola di Musica di Sesto San Giovanni e collabora stabilmente sia come insegnante che come musicista con diverse istituzioni culturali e accademiche. Ama l’arte, legge molto e per fortuna scrive poco. Nella donchisciottesca speranza di contribuire in minima parte alla crescita e al progresso sociale della comunità, è tra i fondatori dell’associazione PalinSesto, laboratorio creativo di idee e progetti culturali. I suoi allievi… la sopportano!