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Nascita tra le stelle

Intervista a Marco Santarelli

La nascita è un fenomeno complesso, che accomuna non solo ogni essere vivente grazie al suo caratteristico venire alla luce, ma anche, in misura diversa, l’universo intero. Quest’ultimo, nel suo complesso e nelle singole parti che lo compongono, a un tratto è nato, ovvero è apparso, passando dal non essere all’essere.

Della nascita potrebbero perciò parlare tutti: come esperienza vissuta in qualità di testimoni; come esperienza al contempo personale e narrata, poiché tutti nasciamo, ma nessuno ha memoria del proprio venire al mondo se non attraverso i racconti degli altri; come oggetto di studio, quando la nascita appare un fenomeno interessante da studiare agli occhi delle più diverse discipline.

Si può dire che, per cominciare a indagare la complessità della nascita, avessimo l’imbarazzo della scelta. Eppure, nonostante questo, non abbiamo avuto esitazioni nello scegliere un preciso punto di partenza: se tutti nasciamo, se tutto nasce, perché non guardare innanzitutto all’universo intero, che al contempo ci contiene e ci costituisce?

Di qui il nostro desiderio di parlare con chi ha avuto la fortuna di conoscere l’astrofisica Margherita Hack, diventandone col tempo amico, collaboratore e interlocutore.

Le parole che Marco Santarelli ci ha regalato nel corso dell’intervista che state per leggere rivelano l’impossibilità di separare i molteplici aspetti che la stessa parola ha assunto nella vita di Margherita Hack: un’astrofisica che riconosceva l’interesse scientifico della nascita e una donna che, come ogni persona, non avrebbe potuto ignorarne il valore.

Come è nato il tuo rapporto con Margherita Hack?

La mia formazione è di tipo filosofico. In particolare, mi sono dedicato alla filosofia ermeneutica e allo studio del pensiero debole di Gianni Vattimo. Ho iniziato a frequentare la Fisica quando mi capitò di conoscere alcune persone del CNR che si occupavano di Fisica delle Reti, che, anche se all’inizio faticai un poco a comprenderlo, è uno sbocco naturale della Filosofia dell’Interpretazione: alcune teorie e alcuni fenomeni oggetto della Fisica delle Reti, come per esempio le fake news, riguardano anche l’Ermeneutica, per cui la verità non è mai unica e stabile, ma è sempre modificabile.

In ogni caso, in questa disputa filosofica tra pensiero debole e Network Theory nella quale mi dimenavo, approdai alla Fisica Sociale, presi alcune specializzazioni e cominciai a frequentarne il mondo. Fu allora che conobbi Margherita.

Una sera ero stato invitato a parlare della Luna in Platone e allo stesso evento era presente anche l’astrofisica Margherita Hack, agli occhi della quale la conferenza appariva piuttosto teorica. Al termine degli interventi, per puro caso, lei si mise a parlare della Luna e ci ritrovammo vicini: ecco l’occasione che mi permise di incontrare questa donna fantastica, che in molti definivano fredda, burbera, alcuni addirittura spietata e da evitare e che per me, invece, rappresentò uno spiraglio, una soluzione, una conclusione ai miei interrogativi scientifici.

Margherita Hack, celebre astrofisica, ma anche grande appassionata di sport ed ex atleta, colei che aveva attrezzato un campo di pallavolo all’Osservatorio Astronomico di Trieste per i suoi colleghi, amante delle gite in bicicletta e giovane cronista delle partite della Fiorentina per la Nazione – una donna, insomma, molto pratica – mi ha aperto un mondo o, più semplicemente, mi ha fatto capire una cosa su tutte: se hai passione, se davvero vuoi capire determinate teorie, devi approfondire in modo non metodico, devi capire che tutte le discipline ti avvicinano alla conoscenza. Il suo insegnamento per me è stato cruciale perché il passaggio dalla Filosofia dell’Interpretazione alla Fisica Sociale divenisse naturale.

Sarebbe corretto dire che Margherita Hack fosse convinta che l’intreccio tra diverse discipline consentano la nascita e la costituzione di un sapere più complesso e più completo?

Direi proprio di sì, è ciò che ho imparato da lei. Tengo a sottolineare un aspetto, però. Margherita non mi ha trasmesso il suo insegnamento solo a parole, ma l’ha fatto con un esempio concreto. Raccontava che a un certo punto si era scontrata con un problema che era diventato il suo cruccio: desiderava diffondere le sue idee, ma non sapeva come, perché sosteneva di non saper scrivere e di essere troppo timida per farlo (e in effetti, per come poi ho imparato a conoscerla, Margherita non era affatto burbera o scontrosa, ma semplicemente affetta da una grande timidezza); allora, buttava giù delle parole su cui poi interveniva suo marito Aldo de Rosa, la cui formazione era di tipo letterario: senza la sua revisione, diceva Margherita, i suoi articoli sarebbero rimasti incomprensibili. Era grazie ad Aldo, cui lei si affidava totalmente, che i suoi scritti potevano essere divulgati, perché ottenevano quella forma articolata di “italiano bello”, come diceva lei, tale da renderli piacevolmente leggibili. Insomma, era stato suo marito a insegnarle a scrivere. Ed ecco l’esempio: quando vuoi avvicinarti a una disciplina diversa da quella che stai studiando, devi iniziare dalle cose più semplici, rintracciando i possibili punti di contatto. Nel mio caso, dovevo trovare le assonanze tra l’Ermeneutica e la Fisica Sociale, e ne ho trovata una, per esempio, nell’interpretazione dei fatti che cambia regolarmente in base alla teoria fallibilista di Popper.

Grazie a Margherita, mi sono accorto che esistono davvero delle unioni tra le diverse discipline ed ecco cosa intendo quando dico che l’incontro con lei ha risolto i miei interrogativi: Margherita ci è riuscita con la forza del suo esempio. Credo anzi si possa dire che la sua efficacia comunicativa sia da ricondurre a un linguaggio che ricorre continuamente al messaggio simbolico dell’esempio.

Vuoi regalarci qualche altro episodio che rivela il linguaggio simbolico di Margherita Hack?

Certo. Mi viene subito in mente come abbia dimostrato la sua passione e la sua forte metodologia attraverso gesti concreti: fino a quindici giorni prima di morire inseriva post-it nelle riviste e prendeva appunti. Oppure il fatto che abbia guardato al futuro fino all’ultimo: pochi giorni prima che ci lasciasse ha cambiato auto, poco importava che avesse già più di 90 anni. La sua forza, tutt’altro che scontata, ha un valore così fortemente simbolico da aver modificato personalmente me e tutti i miei collaboratori e da portarmi a dare vita alla Fondazione Margherita Hack, che si occuperà di catalogare e rendere fruibili le opere che aveva in casa – circa 80mila volumi.

Potrei poi raccontarvi del giorno in cui abbiamo realizzato la copertina per il libro “La mia Vita in Bicicletta”. Le avevano proposto di realizzarla con un fotomontaggio, ma lei ha insistito perché si andasse a scattare la foto in riva al mare: aveva voglia di farsi una pedalata. Ricordo con grande tenerezza la mollettina che portava sempre con sé e che anche in quell’occasione non si dimenticò: la utilizzava per stringersi la gamba larga dei pantaloni per evitare che si incastrasse nella catena, esattamente come facevano i bambini che vedeva pedalare quando percorreva la Trieste-Grado. Questo è un esempio di come, nonostante fosse un personaggio così importante, arrivato all’apice della carriera, aveva mantenuto la sua semplicità.

Questi episodi dimostrano la sua forza simbolica e rappresentano la capacità che Margherita aveva ancora di meravigliarsi. Mi piace pensare che questo esempio possa intercettare i bambini e le bambine affinché conservino la loro meraviglia, che noi adulti, col passare degli anni, facciamo scemare.

Tu stesso hai ricordato che Margherita Hack è stata spesso definita come una donna fredda e oltre a questo è noto il fatto che non avesse voluto avere figli. Eppure, tutta la sua opera di astrofisica è dedicata al tentativo di descrivere la nascita, che, dal momento che siamo fatti di stelle, ha coinvolto tutti noi: la nascita dell’universo, che ci riguarda, ma al contempo è un avvenimento che si perde nella notte dei tempi. Margherita Hack ha saputo appassionare a un evento avvenuto milioni di anni fa, in qualche modo avvicinandolo a noi. Come racconteresti la nascita dal suo punto di vista?

Quando Margherita parlava di nascita, lo faceva quasi sempre da un punto di vista scientifico e in questo caso le sue idee erano molto chiare: la nascita coincideva con il fenomeno del Big Bang, ovvero dell’espansione (non esplosione) che ha fatto sì che il sistema universo si dilatasse e che da questa dilatazione si producessero i primi batteri e le prime forme di vita, che sono poi diventate la calcificazione delle nostre ossa. Questa era la Margherita scientifica, rigorosa: quella nota pubblicamente.

Poi c’è una Margherita tutta diversa, ovvero quella che si era iscritta alla facoltà di Lettere e, dopo un anno, aveva deciso di passare a Fisica semplicemente perché una sua amica vi si era iscritta: una scelta del tutto fortuita e spontanea, segno di una casualità che si è portata dietro per tutta la vita.

Margherita era segnata da un forte dualismo, poiché riusciva a essere da un lato estremamente scientifica e legata agli stessi concetti (la sua idea di nascita da un punto di vista scientifico, per esempio, era praticamente impossibile da scalfire) e dall’altro come spinta da una certa casualità ad agire e nei rapporti umani, soprattutto con i più piccoli, piuttosto disarmata e disarmante. Se Margherita era intervistata in televisione e le veniva chiesto di parlare del Sole in soli tre minuti, era perfettamente in grado di farlo senza mai consultare l’orologio che aveva al polso. Poi, però, subito dopo aver finito, veniva da me e mi diceva: “Ehi, Santarelli dagli occhi belli…” e si trasformava in un’altra persona che voleva parlarti della nascita del bambino di una sua amica. Era come parlare con una zia che non vedi da anni. O ancora, quando attendeva la visita di qualcuno a casa sua, fossero anche i capi di Stato, aspettava e accoglieva tutti sulla porta, pronta a offrire un caffè. Era una donna estremamente aperta: lo mostrava anche quando andavo a trovarla e lei, pur essendo vegetariana, mi faceva trovare i prosciutti più prelibati o quando a mio figlio, quando era piccolo, regalava caramelle e premi che non ricordava nemmeno in quale occasione avesse ricevuto.

Il concetto di nascita permette di cogliere molto bene il dualismo di Margherita. Da scienziata parlava della nascita dell’universo in modo chiaro e rigoroso; nella vita di tutti i giorni si apriva con generosità all’idea della nascita altrui, alla gioia che l’arrivo di un bambino sa arrecare: vedeva la nascita come qualcosa di ulteriormente ammiccante alla vita.

Hai avuto modo di ricordare come, tutto sommato, sia stato un caso a portare Margherita Hack a diventare l’astrofisica che noi tutti conosciamo: se non fosse stato per quella fortuita e fortunata iscrizione alla facoltà di Fisica, oggi non saremmo qui a parlare di lei. Al di là del caso, però, esiste un modo per facilitare la nascita di una passione tale da determinare una scelta, attuabile già all’interno della Scuola, nei percorsi didattici?

A questa domanda si potrebbero dare tantissime risposte. Proviamo a restare su Margherita, ripercorrendo la sua storia e la sua esperienza successiva a quella prima scelta compiuta per caso.

Se parlassimo solo di passione sarebbe riduttivo. Margherita si è appassionata all’universo e alle stelle solo quando è arrivata alla tesi, che ha scelto proprio per capire se quello che aveva intrapreso potesse essere davvero il suo futuro: è la caparbietà, e non la passione in questo caso, a portarla a chiedere fortemente una tesi che non fosse teorica, ma esplicativa. E qui entra in gioco il terzo e fondamentale aspetto, fatto delle persone di cui aveva saputo circondarsi, attraverso scelte specifiche, negli anni dell’università: il professor Giorgio Abetti e il suo assistente Mario Fracastoro l’hanno aiutata, incoraggiata, resa la persona aperta che sarebbe diventata e l’hanno portata ad amare la disciplina.

Dunque è triplice il passaggio capace di determinare scelte importanti ed è fatto di passione, caparbietà e persone in grado di invogliarti e sostenerti. Nel caso di Margherita, possiamo dire che la passione e la caparbietà venissero da lei, ma non sarebbero bastate se non avesse avuto accanto le persone giuste. Molto spesso è importante sentirsi parte di una missione molto più grande di noi, sentirsene coinvolti: è in questo caso che passione e caparbietà possono esplodere. E non è un caso che Margherita ricordasse sempre tanto il professor Abetti quanto Mario Fracastoro. Allo stesso modo, poi, il marito Aldo è stato un altro incontro determinante per quanto riguarda la scelta di inserirsi nel mondo della divulgazione.

Questo racconto è un monito anche per noi che abbiamo a che fare con i ragazzi, con i bambini e le bambine: dobbiamo invogliarli, permettendo loro di farlo, a trovare le loro eccezioni, perché non è la normalità che dobbiamo cercare. Nella normalità non si trova niente di interessante. 

La visione del cielo e la conoscenza delle stelle hanno bisogno di lentezza, silenzio e buio. Il buio è una condizione esterna che, in alcuni luoghi, è possibile ottenere. La lentezza, la calma, la pazienza e anche il silenzio, quando non è assenza di suoni ma attesa, sono predisposizioni mentali. È possibile allenarle?

Questa domanda mi offre lo spunto per affrontare alcune delle ultime questioni che abbiamo trattato insieme. Poco prima della sua morte, io e Margherita ci siamo concentrati su due concetti in particolare. Uno è il silenzio e l’altro è la tecnologia, comprensiva di ogni sfumatura (dai pannelli fotovoltaici all’analisi del suo impatto sul mondo di oggi). Si tratta di concetti a loro volta legati al concetto di nascita e vi spiego perché.

Il concetto di nascita, e credo sia bene che i genitori capiscano questo fatto, deve scontrarsi con la nostra epoca, caratterizzata da un processo di globalizzazione estrema, che fa sì che nessuna delle cose che abbiamo in mano sia locale. Socrate sosteneva che un bambino, dopo essere venuto al mondo, sarà pian piano forgiato dall’arte del dialogo. Oggi, al contrario, la nascita di un bambino – o in generale l’intero apparato della nascita – non prescinde da una precondizione globalizzata che ci portiamo dietro. Il rischio è quello di dimenticare la condizione umana, sia su scala locale sia come eticità, poiché crediamo di essere connessi su una scala più globale, che però non esiste.

Oggi mettiamo al mondo bambini che come riferimento hanno la globalizzazione e, in compenso, non hanno più il concetto di silenzio, non accettano più la condizione della lentezza e della pazienza.

Mentre negli ultimi anni il processo di globalizzazione subiva una forte accelerazione, la nostra memoria – come ci insegna il neuroscienziato Michael Merzenich – se ne andava in letargo. È l’imbarazzo epocale di cui parla anche Luciano Floridi, quando afferma che facendo sposare i concetti di nascita e globalizzazione si ammette che la tecnologia è importante e, al contempo, si perdono memoria e silenzio.

Il letargo della memoria consiste nel fatto che le nostre sinapsi sono più lente della tecnologia: è dimostrato che un bimbo, pur essendo dotato di un cervello molto elastico, per imparare bene un gioco impiega più tempo del gioco stesso, ovvero l’algoritmo è più veloce della nostra memoria.

La velocità tipica della tecnologia, che prende il sopravvento sulla condizione umana, ha una doppia ricaduta: da un lato la mancanza di eticità, perché la velocità spesso ci porta a decidere sotto pressione, senza silenzio, e a non riuscire a essere etici; dall’altro la conseguente vulnerabilità della memoria, la cui elasticità non sa garantire velocità nel rispondere ai fatti. Il risultato è una società che non è più in grado di compiere scelte consapevoli: una società appiattita.

Margherita faceva guerre su queste questioni, chiamando in causa anche le capacità decisionali che devono esistere in ambito politico. È necessario, sosteneva Margherita, cambiare il rapporto delle cose con l’uomo, ovvero riconquistare il silenzio, la capacità di pensare lentamente: la soluzione spesso e volentieri non sta nel raccontare con velocità, ma nell’attesa.

Ancora una volta, era chiaro l’esempio di Margherita, che lasciava maturare le sue idee nel silenzio, insegnandomi anche un metodo: quando scrivo un articolo, lo rileggo il giorno dopo e il giorno dopo ancora, così che alla fine il risultato sia uno scritto letto più volte in giorni diversi, che arriva forse più lentamente, ma che si nutre di prospettive sempre differenti che solo il silenzio sa offrire. 


Marco Santarelli Capo Settore Scienze dell’Uomo e Sociali, Responsabile Laboratorio IC2 Lab – Laboratorio Intelligence, Complexity e Communication; Membro del Comitato Scientifico, Artistico Socioculturale e Dipartimentale per la Cibernetica e Presidente della Commissione Ricerca; Docente di Design  Management e di Semiotica dell’Arte in Accademia di Belle Arti e Design Poliarte di Ancona. Responsabile progetti di ricerca CNR-ISC – Poliarte, accordo di collaborazione scientifica in ambito della complessità applicata all’ingegneria e alle scienze sociali con particolare attenzione alle tematiche delle infrastrutture critiche e dei big data. Direttore Scientifico ReS On Network di Londra e Fondazione Margherita Hack. Coautore di Margherita Hack per dieci anni (3 libri insieme: “Sotto una cupola stellata”, Einaudi, Torino, 2012, “Diario di un incontro”, Zikkurat Ed. & Lab., Roma/Messina, 2010, “L’Aquila volta la carta”, Arkhè, 2010). Conta numerose pubblicazioni e, oltre al progetto in corso “Intelligence and Global Defence”, è divulgatore scientifico per TV, Media Nazionali e per il progetto “La Scienza in Valigia”, format tv per Marcopolo e piattaforma SKY.