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Parte della natura

Intervista a Telmo Pievani

Che cos’è la natura?
Tutti noi pensiamo di avere della natura un’idea precisa. Eppure, quando proviamo a definirla, abbiamo la sensazione che qualcosa ci sfugga, non possiamo evitare di cominciare a nutrire qualche dubbio.
In effetti, che cosa sia la natura è tutt’altro che una questione banale. Il tema che abbiamo scelto, però, ci impone di partire proprio da questo interrogativo, al quale, per fortuna e come sempre, non risponderemo da soli. Ad accompagnarci ci sarà il filosofo della scienza Telmo Pievani, che abbiamo incontrato in occasione dell’intervista che potete leggere qui.

Ci piacerebbe cominciare leggendo un passaggio tratto dal suo libro Imperfezione: «La Natura è più grande di tutte le nostre teorie per comprenderla». Sembra che la Natura, che il senso comune tende a pensare come un dato indubitabile, austero e oggetto del nostro (anche ammirato) sguardo, sia invece l’insieme di ciò che è, ovvero il risultato di un processo ancora in divenire, e di ciò che non è stato e che sarebbe potuto essere. Quali ricadute ha o può avere una simile idea di Natura sulle nostre pratiche?

Credo che siano evidenti le ricadute sulla scuola, sulla didattica. La mia idea, che condivido con molti tra coloro che studiano l’evoluzione, è che sia sbagliato personificare la natura, attribuirle delle intenzioni. La nostra mente, tuttavia, lo fa molto facilmente. Lo si è visto anche in occasione della pandemia, quando si è spesso sentito dire frasi come «La Natura ci punisce» o «Dobbiamo farci perdonare dalla Natura». Che cosa vogliono dire queste affermazioni? Sarebbe importante discuterne a scuola, perché, a ben guardarle, rivelano una tendenza rischiosa: spesso sono solo metafore, che però inducono l’idea che la natura sia qualcosa di diverso da noi, qualcosa da cui noi ci siamo separati e con cui poi interagiamo. 
Io credo che la giusta prospettiva sia rendersi conto che noi siamo natura, o meglio ne siamo una parte: la natura è un grande sistema di relazioni di cui noi siamo una componente. Ho scritto Imperfezione prima della pandemia, ma la chiave di lettura che vi offro si sarebbe potuta applicare benissimo anche alla situazione pandemica. La pandemia è l’evidenza della nostra vulnerabilità, ma anche del nostro essere parte di un sistema che ci eravamo dimenticati esistesse.
Tutto questo spiega perché cerco sempre di impegnarmi moltissimo per tutto ciò che riguarda la scuola. Credo sia il momento perfetto per ricostruire una consapevolezza di che cosa è davvero la natura: un grande sistema di relazioni. Chi è toccato, per esempio, dalle implicazioni di una deforestazione? Non solo le persone che abitano nei pressi della foresta interessata, ma anche io stesso e la mia vita, perché è anche così che i virus fanno il salto di specie e arrivano a colpirci. Dobbiamo diventare sempre più consapevoli di queste connessioni. 
La natura è trasformazione, flusso, ed è contingente, perché non è fatta per noi. Non è lì per darci una casa o per darci da mangiare. Se ne sta lì, per i fatti suoi, e noi dobbiamo imparare a viverci dentro.


Quanto dice mi riporta al libro di Timothy Morton Come un’ombra dal futuro, dove si sostiene che l’idealizzazione della natura, resa un oggetto esterno, sia frutto della nostra visione antropocentrica e, come tale, contraria all’idea stessa di un pensiero ecologico.

Se ci facciamo caso, siamo di fronte a un paradosso. Quali sono, infatti, le forme di pensiero che concepiscono la natura come un oggetto? Sono tendenzialmente due e opposte tra loro. 
La prima è l’atteggiamento predatorio, che guarda alla natura come a una risorsa. È ciò che si intende anche con termini quali “capitale naturale”, dal sapore fortemente antropocentrico: la natura, inerte e ben distinta da noi, è un capitale che può rivelarsi molto utile per noi uomini e crediamo di poterla sfruttare secondo il nostro bisogno monetario. La natura, però, è chiaramente anche molto altro. 
Dall’altra parte c’è l’atteggiamento ambientalista tipico degli anni passati (al giorno d’oggi le cose stanno cambiando per fortuna). È una forma di pensiero che tendeva a idealizzare la natura secondo una visione animistica che definiva buona la natura e buono di per sé tutto ciò che fosse naturale. L’errore di questo ambientalismo è speculare a quello implicito nell’atteggiamento predatorio.
Oggi, Morton, io e tanti altri stiamo cercando di ricostruire le basi di un ambientalismo diverso: scientifico, poiché vede nella scienza un’alleata e non una nemica; umanista, ovvero che riconosca che gli interessi della natura coincidono con i nostri. È importante capire, secondo me, che non ha più senso individuare una dicotomia tra gli interessi della natura e quelli di noi umani: voler difendere il futuro dei nostri figli significa dover tutelare gli interessi degli animali, delle piante, della natura. Non solo come capitale, ma come sistema di cui siamo parte.


Nel suo più recente Finitudine scrive: « La nostra caducità cosmica è, in realtà, un’appartenenza cosmica». Nella raccolta differenziata il nostro posto sarebbe nei rifiuti organici, al pari di una buccia di banana. È un pensiero che ci costringe a un bagno di umiltà, ma che ci colloca nella continuità da cui siamo accidentalmente emersi e che ci dichiara parte di un tutto. Questo pensiero potrebbe essere più confortante del sentirsi speciali?

Innanzitutto dobbiamo chiederci: dovremmo confortarci? Io non credo. Ciò che intendo dire è che nei secoli passati siamo stati sedotti da tanti sistemi di pensiero che volevano consolarci: le grandi ideologie, le narrazioni totalizzati, l’idea di una natura buona verso la quale dovremmo nostalgicamente ritornare. Sono tutte forme di pensiero particolarmente consolanti. 
Oggi, secondo me, dobbiamo sostituire la consolazione con l’idea di responsabilità, che di per sé non è né bella né brutta. L’etimologia di “responsabilità” ci rimanda al verbo “rispondere”: chi è responsabile è consapevole degli effetti delle sue azioni e ne deve rispondere. 
L’umanità, tanto nel suo complesso quanto a livello individuale, ha dimenticato di essere responsabile o, comunque, lo è stata decisamente meno del necessario. In qualità di individui, facciamo molta fatica a capire quale impatto ambientale e sociale abbiano il nostro comportamento e le nostre azioni: come può dipendere solo da me, che sono tanto piccolo e insignificante? È la domanda che ci poniamo sempre e che, alla fine, ci deresponsabilizza.
Un senso di responsabilità ci manca anche se ci consideriamo come collettività. Ripensiamo ancora alla pandemia, che è un ottimo esempio. Adesso che – si spera – siamo sul finire di questo terribile frangente, nessuno invita a essere lungimiranti e a impegnarsi a rimuovere le cause profonde delle pandemie, che non possono essere sempre risolte con l’arrivo di un vaccino in tempi rapidissimi. Razionalmente, dovremmo discutere di come ridurre la probabilità delle pandemie. Tuttavia, stentiamo a farlo perché è qualcosa di scomodo, che richiederebbe la fine delle deforestazioni, della sostituzione delle foreste con le piantagioni, del commercio illegale di animali domestici, etc. Insomma, ridurre la probabilità delle pandemie ci obbligherebbe a cambiare un bel po’ di comportamenti. Per questo preferiamo pensare che, qualunque cosa succeda, la scienza riuscirà a tirarci fuori dai guai. 
Intendiamoci, il vaccino è un enorme risultato scientifico. Ma non deve trasformarsi in un alibi per non fare anche tanto altro.


Nelle aule scolastiche italiane si nutre oggi ben poco scetticismo nei confronti della teoria dell’evoluzione, che è di per sé intrisa di movimento. Perché, allora, guardando, per esempio, ai sussidiari, ci si ostina a presentare la natura come qualcosa di immutabile e immobile? O, spesso, gli elementi naturali sono descritti come fossero frutto dell’azione umana?

Questo è vero, l’ho notato sempre anch’io. È un ritardo. 
Noi abbiamo fatto battaglie affinché dai programmi delle scuole non venisse tolta l’evoluzione e io stesso sono convinto che sia importante che alla primaria, così come, successivamente, alla secondaria di primo e secondo grado, si ricevano le basi per comprendere come funziona l’evoluzione, che si incontrino e si capiscano le idee di mutazione e di selezione. Avere familiarità con queste categorie, per esempio, permette di non stupirsi di fronte alle varianti che, inevitabilmente, qualunque virus avrebbe sviluppato.
Tutto questo è importante, ma c’è qualcosa che lo è ancora di più. Quando spieghiamo la natura, dovremmo darne un’interpretazione sistemica, che lega tra loro i vari elementi. Dobbiamo preparare i futuri studenti a capire che cos’è l’economia circolare, la salute circolare e a diventare consapevoli del rapporto che esiste tra la salute umana e la salute dell’ambiente in cui si vive. Sono tutte questioni sistemiche, di relazioni. 
Infine, dovremmo sempre rendere chiaro l’aspetto dinamico della natura, che è un flusso continuo di trasformazione instabile e non in equilibrio. Non possiamo spiegare la natura tacendo queste sue caratteristiche: mi rendo conto sia più complicato e sfidante, ma è così che dobbiamo presentarla in futuro.


Noi facciamo parte della natura e, come già ci diceva all’inizio, non sarebbe corretto riferirsi a essa come distinta, altra da noi. In Finitudine invita a non considerare la natura come un’interlocutrice, ma è possibile dialogare con essa in modo virtuoso?

Io penso che, dopo la pandemia, quello che dovremmo fare sempre di più a scuola sia lavorare sulle relazioni e sulle chiavi di interpretazione critica dei fenomeni. Ci sono progetti su cui stiamo lavorando che lo stanno già facendo. Lo dico in modo provocatorio: vedo in TV una scena di deforestazione in Amazzonia? Le affianco una scena di terapia intensiva. Potrebbe, apparentemente, non esserci un legame tra la prima e la seconda immagine, eppure c’è ed è fortissimo: il fenomeno della deforestazione aumenta la probabilità di pandemie. Viviamo in un mondo globalizzato e, viaggiando, attraverso di noi un virus arriva ovunque in pochissimi passaggi. La connessione è molto precisa.
Dobbiamo imparare a ragionare per relazioni e connessioni. Oggi e in futuro dobbiamo dedicarci a questo: una minor quantità di informazioni in luogo di una maggior capacità di comprendere le relazioni tra i fenomeni.


In questo sistema di relazioni trova ampio spazio anche l’immaginazione?

Assolutamente sì. A scuola è fondamentale allenarla, perché è l’immaginazione che permette agli scienziati di fare dei modelli, di figurarsi proiezioni sul futuro.  
Esistono studi molto belli che mostrano come il cervello dei bambini e dei ragazzi che a scuola scoprono qualcosa metta in atto le stesse strategie che attuano gli scienziati in occasione delle loro scoperte: metafore, analogie – e ancora una volta, guarda caso, si tratta di connessioni. È come se la creatività si sviluppasse sempre su regole universali. 
È l’immaginazione, del resto, che fa la differenza tra l’intelligenza umana e le altre intelligenze animali: figurarsi nella nostra mente mondi che non esistono o dei quali non abbiamo mai fatto esperienza. 


Prendendo spunto dalla figura dell’attore, cui lei stesso fa riferimento sul finire del suo Finitudine, sarebbe azzardato invocare questo ruolo anche e proprio in virtù della sua capacità di entrare e uscire da personaggi e prospettive diverse giocando nella natura, pièce teatrale fatta anche di improvvisazioni e colpi di scena?

Mi sembra una bella metafora. Io, in Finitudine, ho ripreso la metafora dell’attore da Albert Camus, che è stato anche autore di teatro e attore. Camus scriveva che l’attore è una metafora molto bella della finitudine umana: si mette in scena la nostra vita nella consapevolezza che il sipario, così come si è aperto, si chiuderà.
Penso però che quella dell’attore sia una buona metafora anche per discutere in generale di relazioni e di possibilità. L’attore è colui che mette in scena delle vite immaginarie, ma, come diceva Camus – e penso avesse ragione -, quando si legge un bel romanzo e se ne è catturati, ciò accade in virtù della sua logica interna, della sua architettura plausibile e sensata: è, come diceva Camus, un universo possibile. 
Credo che per noi umani sia fondamentale, soprattutto oggi, imparare a esplorare mondi possibili. Viviamo in una realtà conformista che ci bombarda con l’idea secondo cui l’unico mondo possibile sia quello che stiamo vivendo, ma chi ha detto che sia così? Potremmo immaginare altri mondi possibili. 
Secondo me, è bellissimo e importantissimo, per esempio, lavorare sui mondi possibili quando si fa educazione ambientale. Il che vuol dire anche essere pronti a fare esempi virtuosi: raccontare di popoli o di storie in cui i gruppi umani hanno saputo e sanno vivere in modo sano – fisiologico e non patologico – con l’ambiente e con la natura. Con il resto della natura.

Telmo Pievani foto

Telmo Pievani (1970) è Ordinario di Filosofia delle Scienze Biologiche presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli studi di Padova. Dal 2017 al 2019 è stato Presidente della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica, il primo filosofo della scienza a ricoprire questa carica. Filosofo della biologia ed esperto di teoria dell’evoluzione, è autore di 276 pubblicazioni nazionali e internazionali nel campo della filosofia della scienza, fra le quali: Introduzione alla filosofia della biologia (Laterza, 2005); La teoria dell’evoluzione (Il Mulino, 2006, 2010 e 2017); Creazione senza Dio (Einaudi, 2006); Nati per credere (Codice Edizioni, 2008, con V. Girotto e G. Vallortigara); La vita inaspettata (Cortina, 2011); Homo sapiens. La grande storia della diversità umana (Codice Edizioni, 2011, con L.L. Cavalli Sforza); Introduzione a Darwin (Laterza, 2012); La fine del mondo (Il Mulino, 2012); Homo sapiens. Il cammino dell’umanità (Atlante dell’Istituto Geografico De Agostini, 2012); Anatomia di una rivoluzione (Mimesis, 2013); Evoluti e abbandonati (Einaudi, 2014); Libertà di migrare (Einaudi, 2016, con V. Calzolaio); Come saremo (Codice Edizioni, 2016, con L. De Biase); Homo sapiens e altre catastrofi (Meltemi, 2018); Imperfezione. Una storia naturale (Cortina, 2019); La Terra dopo di noi (Contrasto, 2019; con foto di F. Lanting); Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà (Cortina, 2020). È socio di importanti società e accademie scientifiche italiane, fa parte del Comitato Etico della Fondazione Umberto Veronesi e dell’Editorial Board di riviste scientifiche internazionali come Evolutionary Biology, Evolution: Education and Outreach e Rendiconti Lincei per le Scienze Fisiche e Naturali. Dal 2020 è co-direttore scientifico della collana “Scienza e Idee” di Raffaello Cortina Editore. Dal 2018 fa parte del Comitato Editoriale dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani. È direttore del portale Pikaia, collabora con i principali festival della scienza italiani, ha diretto importanti mostre scientifiche internazionali. Dal 2014 è nel Consiglio Scientifico Internazionale del MUSE di Trento. Autore di libri anche per bambini sull’evoluzione, insieme alla Banda Osiris e a Federico Taddia è autore e attore di progetti teatrali e musicali a tema scientifico, come “Finalmente il Finimondo!” (2012), “Il maschio inutile” (2015) e “AquaDueO” (2018). Nel 2019, con il collettivo musicale “Deproducers” ha realizzato, per AIRC, lo spettacolo “DNA”. Collabora con Il Corriere della Sera e con le riviste Le Scienze, Micromega e L’Indice dei Libri.