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Per di là

Intervista a Charles Fréger

Ci sono viaggi che, più di altri, sono animati dal desiderio di scoprire e viaggiatori che, più di altri, vogliono annotare tutto ciò che li colpisce. Oggi, in particolare, sono tanti coloro che percorrono sentieri e attraversano confini immortalando quante più immagini possibile grazie alla fotografia, ma per alcuni la passione è tale da tramutarsi nell’obiettivo di una vita. In questi casi si rende necessaria una severa selezione, una scelta del soggetto che, in vario modo, sarà protagonista di ogni inquadratura.
Charles Fréger, viaggiando, rivolge il suo sguardo fotografico sugli elementi in comune: caratteri che rendono visibili le collettività.


Hai girato tutto il mondo e hai raccontato la vita di numerosi popoli, all’apparenza molto diversi. C’è qualcosa che è sempre presente e in qualche modo li (o, forse, ci) accomuna tutti?

Sin dall’inizio del mio lavoro da fotografo, sono stato interessato a documentare la vita di piccole e grandi comunità. Forse risponderò in modo semplice e basilare, ma per comunità intendo gruppi che hanno qualcosa in comune e che, per questo motivo, si ritrovano e trascorrono tempo insieme. Le comunità non sono solo costituite da persone che vivono in uno stesso luogo: possono essere semplicemente dei gruppi, come squadre sportive, club, scuole, eserciti, o individui che periodicamente e per diverse ragioni si incontrano on line. Per essere parte di una comunità, ogni componente deve rinunciare a un pezzetto della propria identità personale e fare proprio qualcosa dell’identità del gruppo: saranno queste le caratteristiche comuni che identificheranno una data comunità.
In che cosa consistono queste caratteristiche? Possono riguardare diversi aspetti: dal modo di vestire dei singoli appartenenti al gruppo (si pensi alle uniformi tipiche di un esercito o agli indumenti dei giocatori di una squadra di football) al linguaggio e all’utilizzo di espressioni particolari; c’è l’adesione a determinate regole o anche la condivisione di una specifica mitologia.


ll concetto di frontiera è molto complesso: è un qualcosa che può avere conseguenze enormi sulla vita di una persona. Eppure, non esiste fisicamente: è un’invenzione umana, forse troppo umana. Come spiegheresti questo concetto a un bambino?

Si comincia a pensare alla frontiera quando non la puoi più attraversare. Sono un fervente sostenitore dell’Unione Europea: credo sia una delle cose migliore fatte nel ventesimo secolo e una delle opportunità più preziose che abbiamo anche oggi. La frontiera appare e porta a interrogarsi quando un confine viene chiuso. Basta pensare alla nostra recente esperienza: a causa della pandemia da Covid19, d’un tratto non ci è stato più possibile recarci nel paese vicino. Nel mio caso, è stato veramente incredibile non poter attraversare frontiere che valicavo di continuo, ormai senza nemmeno farci caso, per recarmi in Belgio, in Inghilterra o in Germania. Insomma, quello che è successo ci ha fatto toccare con mano il fatto che le frontiere – i confini – non sono elementi astratti, ma concreti e portano con sé numerosi problemi: la possibilità o meno di valicarli è uno di essi, ma non è il solo. L’esistenza stessa dei confini si basa sull’idea che sia necessario proteggere un interno colmo di elementi in comune da un esterno differente: un noi da un voi e da un loro. Il concetto di frontiera porta due persone o due popoli a credersi estranei e diversi.
Definirei il confine e la frontiera come una falsa protezione contro qualcosa. E se dovessi spiegare questo concetto a un bambino, non direi nulla, ma glielo farei direttamente sperimentare. Creerei due percorsi: nel primo potrebbero camminare liberamente; il secondo sarebbe pieno di continui e antipatici ostacoli da affrontare.


Sapresti suggerire una piccola azione che permetta ai più piccoli di conoscersi più a fondo, scoprendo il viaggiatore, se non addirittura il nomade che è in loro?

Io per natura non sono né un viaggiatore né un nomade. Mio papà è un agricoltore e le mie radici sono molto salde: per me intraprendere un viaggio non è mai naturale o immediato, ma comporta sempre un distacco e una rinuncia. Mi viene in mente un’attività molto semplice, che potrebbe rivelarsi interessante per scoprire qualcosa di più su ciascuno di noi. Serve solo una valigia, uno zaino o una borsa capiente; il luogo più adatto è la casa in cui abitiamo. A questo punto non farei altro che chiedere ai bambini e alle bambine di mettere all’interno della valigia ciò che si porterebbero se dovessero partire per un viaggio, motivando ogni scelta. Non darei un limite di oggetti: è una difficoltà capace di raccontare qualcosa di sé.

Charles Fréger nasce a Bourges, in Francia, nel 1975. Si è laureato presso la Scuola d’arte di Rouen nel 2000. Si è dedicato alla rappresentazione poetica e antropologica di gruppi sociali come atleti, scolari, forze armate. I suoi lavori offrono una riflessione sull’immagine della gioventù contemporanea. È anche il fondatore della comunità artistica Piece of Cake e della casa editrice POC. Le sue serie dedicate agli sportivi, soldati o studenti, realizzate in Europa e nel resto del mondo, si concentrano soprattutto su quello che indossano, sulla loro uniforme. Ha scelto comunità in cui le tenute assumono le sembianze più esuberanti e prestigiose (come nelle serie Steps, Empire, Opera), così come situazioni più modeste nelle quali l’immagine collettiva simboleggia la vita in Europa (Bleus, Sihuhu) o in altri continenti (Umana, Ti du). Le sue immagini registrano gli effetti della socializzazione, riconoscibili nel costume e nell’abbigliamento, che rappresentano il livello più esteriore dell’essere. Ha pubblicato numerosi lavori ed esposto in diversi musei e gallerie in Europa, Asia e negli Stati Uniti.