Piccoli grandi viaggi
Intervista a Giuseppe Sofo
Che cosa vuol dire viaggiare?
Percorrere distanze, ma soprattutto fare innumerevoli scoperte su di sé e su ciò che ci circonda. Per questo, spesso, bastano pochi passi. Per questo, sempre, serve moltissima attenzione.
Abbiamo incontrato Giuseppe Sofo, autore di Atlante dei viaggi minimi, così da prepararci ad affrontare percorsi abituali, brevi e apparentemente banali per coglierne ogni significato e saperli vivere a pieno.
Quando si parla di nomadismo si pensa subito a lunghi viaggi, spesso esotici. Nel tuo libro, invece, racconti di viaggi minimi, eppure spettacolari e complessi. Uno tra questi è il percorso lungo e irto di ostacoli di una mano che deve avvicinare la mano della persona che ha scoperto di amare; un altro è il viaggio impossibile intrapreso da un gruppo di amici per andare al ristorante.
Perché è importante soffermarsi su tragitti che a stento chiameremmo viaggi?
Il viaggio ha sempre fatto parte della mia vita, di solito nella sua versione più classica, con viaggi lunghissimi ed entusiasmanti, ma mi ha sempre attratto pensare a quegli spostamenti così piccoli che sembrano scontati, e che sono invece ancora più complessi, perché il bagaglio che dobbiamo portarci dietro non contiene solo i nostri vestiti, ma soprattutto il nostro vissuto, le nostre emozioni. Siamo sempre più abituati ai viaggi estremi e a scoprire luoghi che non conosciamo attraverso foto, video, al punto che a volte sembra non ci sia più niente da scoprire, ma siamo sempre meno abituati a questi piccoli viaggi di ogni giorno, che ci ricordano che, per scoprire qualcosa di veramente nuovo, dobbiamo guardare un po’ anche dentro di noi e non solo fuori.
Cosa si mette nello zaino o nella valigia, prima di partire per un viaggio minimo?
Direi uno specchio. Perché, in fondo, quello che i viaggi minimi ci portano a scoprire è chi siamo, i nostri desideri e le nostre paure, ma soprattutto ciò che ci fa stare bene, semplicemente, a casa nostra come altrove.
Nel libro hai scritto che “condizione di ogni viaggio è la possibilità di perdersi”. Perché?
A un certo punto di ogni viaggio si scopre che tutto ciò che si era programmato non è che il contorno del viaggio. Le scoperte vere si fanno trovando qualcosa che non si cercava, perdendosi un po’, lasciandosi portare da chi ti circonda e dal luogo in cui sei piuttosto che dalle guide e dai piani stilati prima della partenza. E perdersi svela non solo ciò che ci circonda, ma anche un lato di noi che di solito non conosciamo.
Tu sei un linguista: non ti senti, quando traduci da una lingua all’altra, un nomade errante tra paesi diversi? Ci descrivi che cosa provi in un simile viaggio?
La mia ricerca è molto legata al viaggio, in questo caso al viaggio delle parole e dei testi da una versione all’altra e da una lingua all’altra. La traduzione è qualcosa che smuove il senso, che mette in movimento le parole e i significati, ma soprattutto che svela quello spazio in cui, accostandosi a un’altra lingua, scopriamo la possibilità di esprimere cose che nella nostra lingua non sono esprimibili. Anche questo è un viaggio, anche questa è una scoperta di sé e dell’altro, della propria lingua e dell’altra, che ha bisogno di una preparazione ma soprattutto di una disponibilità a perdersi e a scoprirsi diversi da quello che credevamo di essere. È solo nel movimento che possiamo capire appieno chi siamo e come ci esprimiamo.
Giuseppe Sofo, ricercatore di lingua e traduzione francese all’Università Ca’ Foscari di Venezia e autore di opere di narrativa e di viaggio (Trinidad & Tobago: Carnevale, fango e colori, Miraggi; Quest’alba radioattiva, Las Vegas; Qui lo chiamano blues, Azimut), ha tradotto prosa e poesia da francese, inglese e tedesco. Ha insegnato in scuole materne ed elementari nelle Alpi francesi, in licei svizzeri e in università in Italia, Francia e Stati Uniti e vanta presenze e gol nella nazionale di calcio degli scrittori svizzeri. Per RAUM Italic ha pubblicato l’Atlante dei viaggi minimi e il Manuale per la (dis)educazione dei grandi.