Playlist a cura di Pierluigi Ledda
La politica entra nella musica nei modi più diversi, a volte come critica del sistema, altre come strumento di propaganda, altre ancora per costruire mondi utopici (o distopici) da abitare con l’ascolto, come certa fantascienza. Catalogare tutte queste molteplici forme è un’impresa ardua.
Sono convinto che i messaggi politici espliciti nella musica depotenzino il suo potere astratto ed evocativo. Credo anche che la musica più politica non sia quella programmaticamente civile, quella che lancia slogan, quanto piuttosto la musica che sa farsi espressione onesta e visionaria delle istanze del proprio tempo.
Per tutte queste ragioni le proposte musicali che seguono non hanno la pretesa di essere esaustive o paradigmatiche, ma rispondono unicamente a un principio di eclettismo e curiosità. Buon ascolto.
“Penthouse and Pavement”, album di esordio degli sheffieldiani Heaven 17, è un gioiello synth-pop, oltre che un’istantanea del rampantismo tipico degli anni ’80. Il primo singolo “Fascist Groove Thing” affronta i temi del fascismo e del razzismo con il lessico della musica funky, una critica scanzonata e sopra le righe, indirizzata anche agli allora leader politici di Regno Unito e Stati Uniti, ovvero Margareth Thatcher e Ronald Reagan. Per i riferimenti politici il brano fu bandito dalla BBC.
“Con i suoi capolavori Robert Wyatt scrisse una colonna sonora dell’esistenzialismo post-industriale, accoppiandola a un commovente atto di fede nella dignità dell’uomo.” (cit. Scaruffi). In questo brano tratto dal suo album più “civile” Wyatt afferma: “In definitiva non vorrei che mi si ammazzasse perché canto, sono un libero agente e posso protestare”. Il titolo per alcuni è una critica del bigottismo reazionario dei “born again christian”, per altri una presa in giro della fase mistica di Dylan tra la fine dei ‘70 e gli inizi degli anni ‘80.
Lottare per il (sacrosanto) diritto di fare festa. Inno programmatico alla cazzoneria, è forse il brano più celebre del trio newyorkese, grazie anche a un videoclip ormai scolpito nell’immaginario. Musicalmente una parodia del rock da party americani, frainteso da alcuni che ci vollero vedere un messaggio serio. Il riff di chitarra è di Kerry King, chitarrista degli Slayer; la produzione di Rick Rubin.
La techno di Detroit, in particolare il funky meccanico del collettivo militante Underground Resistance, è la sintesi perfetta di tecnologia, astrazione e messaggio, la creazione – attraverso le macchine – di un futuristico mondo sonoro come risposta alla crisi di una città decaduta. Qui in una delle manifestazioni più esuberanti.
Rimanendo su questo solco, la recente reincarnazione techno proposta da Speaker Music, particolarissimo ibrido concettuale a metà strada tra spoken work e footwork di DeForrest Brown Jr., aggiunge un tassello significativo nel percorso evolutivo del genere. Il titolo del brano è di per sé un manifesto.
Sconcertante e iper-contemporaneo esempio di “musica motivazionale” per via del suo testo, riassumibile pressappoco così: “Vuoi una Lamborghini? Vuoi una villa in Francia? Devi rimboccarti le maniche e lavorare”. Il lavoro come religione professato da una sacerdotessa del pop.
“We Insist! Freedom Now” è un disco seminale, colonna sonora del movimento per i diritti civili degli afro-americani che nel 1960 era nel periodo di massimo fulgore: “[…] Nel 1960 Roach compose e incise per la Candid ‘We Insist! Freedom Now Suite’ un lavoro basato sui testi del poeta e cantante Oscar Brown, Jr e scritto in occasione del centenario della “proclamazione di emancipazione” di Abraham Lincoln. Un’operazione così esplicita, per l’epoca (anche per quanto riguarda la copertina del disco, veramente provocatoria), contribuì all’inserimento di Roach nella ‘lista nera’ dell’industria discografica americana nella seconda metà degli anni Sessanta, e lo costrinse a diradare la sua presenza in studio d’incisione. […]” (cit. antiwarsongs.it).
Un brano semplicemente grandioso, comunemente considerato un esempio fulminante di proto-rap e colonna sonora del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Il titolo era uno slogan dei movimenti Black Power negli anni Sessanta.
Altri tre esempi, assai diversi nei toni, di black music che sa farsi veicolo di istanze sociali e politiche.
Le celebri playlist di Obama hanno segnato un cambio di passo importante nel rapporto tra musica e politica, rottamando gli imbarazzanti assolo di sassofono di Bill Clinton e portando finalmente un po’ di gusto (e coolness) musicale nella comunicazione politica.
Nel 1964 un compositore (Nono) e uno scrittore (Giuliano Scabia) firmano quest’opera politica, sintesi di ricerca musicale (attraverso le magiche macchine dello Studio di Fonologia RAI di Milano), istanze documentaristiche (registrati su nastro magnetico rumori delle macchine e voci degli operai durante il percorso di produzione dell’acciaio) e letterarie (Scabia annotò parole, ordini, locuzioni gergali della fabbrica e raccolse pubblicazioni sindacali utili alla redazione del testo letterario).
, manager culturale e collezionista musicale, vive e lavora a Milano. Dal 2011 è il direttore generale dell’Archivio Storico Ricordi. Tiene inoltre corsi su discografia e cultural industries per l’Università di Udine e IULM di Milano.