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Politicamente naturali

Intervista a Leonardo Caffo

La politica è la nostra natura: non possiamo farne a meno. E se, paradossalmente, sono proprio decisioni politiche che ci hanno spinti contro la Natura, politiche sono e saranno le scelte con cui potremo andarle incontro.

Del ricco e complesso rapporto che esiste tra politica e natura abbiamo parlato con Leonardo Caffo. Il risultato è l’intervista che state per leggere.

Il tuo lavoro di ricerca affronta la Natura in una modalità che si distingue da altre cui siamo abituati: meno ecologicamente integralista, si avvicina di più alla sociologia. Il tuo è uno sguardo più ampio, più contemporaneo. Uno dei primi salti che hai fatto nel mondo editoriale, per esempio, è consistito in una presa di posizione nei confronti di alcune scelte, come il veganesimo, che implicano da parte nostra un modo diverso di trattare gli animali. Spesso si pensa che simili questioni non siano considerate parte di un approccio alla natura, mentre per te non è così. 

All’inizio del mio percorso di ricerca sono stato particolarmente incuriosito dal cercare di capire perché noi facciamo della natura quello che vogliamo. Che ciò accada è sotto gli occhi di tutti e credo che a evidenziare ancora di più questo dato sia proprio il nostro rapporto con gli animali in tutta la loro complessità. È questa la ragione che mi ha portato a interessarmi al modo in cui li trattiamo e non tanto, come si potrebbe pensare, il fatto che li ami in modo spassionato: alcuni animali mi piacciono, certo, ma il punto è che per me sono concettualmente interessanti. Un po’ come per Stefano Boeri, che, come lui stesso mi ha raccontato in occasione di un’intervista che gli ho rivolto per Cartography, si è avvicinato agli alberi non perché li amasse particolarmente, ma perché li riteneva concettualmente rilevanti ai fini della sua ricerca. 

Credo che sia importante capire che l’amore e il rispetto sono due cose profondamente diverse: in una forma di vita, e di etica, in cui i miei diritti finiscono lì dove inizia il corpo dell’altro, quale che sia quest’alterità, tutti hanno la stessa dignità di essere rispettati, anche se non sono amati. In questo senso, il nostro comportamento può modificarsi in funzione del rispetto che nutriamo nei confronti della natura, anche se, paradossalmente, questo è un gesto profondamente innaturale: proprio la natura è un luogo in cui accade tutto e il contrario di tutto, un luogo che per certi aspetti potremmo definire spietato.

Avvicinarsi alla natura cercando di edulcorarla attraverso il rispetto per gli animali è una sorta di forzatura. D’altra parte, però, io penso che tutte le scelte politiche esistano in quanto contro-natura. La politica è una bellissima forma di contro-naturalità in cui si cerca di stabilire una seconda natura, ovvero quella dell’essere umano, in cui la violenza, che è qualcosa di perfettamente naturale, viene arginata e possibilmente combattuta; in cui la malattia, che è la cosa più naturale del mondo, viene combattuta e preferibilmente arginata; in cui il patriarcato, che potrebbe considerarsi come un’estensione più o meno maldestra dello stato primitivo dell’uomo, viene arginato e auspicabilmente combattuto. 

Ecco perché non dobbiamo utilizzare la parola natura come un falso sistema retorico. L’uomo non ha mai assecondato la natura, ma da sempre la combatte: andarle contro è, paradossalmente, nella sua natura di essere umano. Da qui poi si aprono due possibilità: o la distruzione del pianeta, tramite l’indiscrimiata emissione di Co2, o il cercare di costruire una seconda e alternativa natura che si allei alla sopravvivenza, al futuro, alla voglia di dare un mondo migliore alle generazioni che verranno dopo di noi. 

Il rapporto con gli altri animali per me ha assunto rilevanza proprio perché poteva diventare uno dei tanti versanti su cui costruire un modo di andare contro la natura che coincidesse con un’etica fondata sul rispetto e con un’ecologia non retorica, che prende in considerazione, per esempio, dati decisamente incisivi come la quantità di acqua necessaria per fare un hamburger (all’incirca 100 litri). 

Tengo però a dire che io credo in una filosofia dimostrativa: il fatto di credere in qualcosa non mi porta a professare alcuna verità, ma a fare io per primo ciò di cui sono convinto, per poi vedere che cosa succede. Sono totalmente contrario a qualunque posizione settaria, come quelle di chi contrappone il vegeterianesimo al veganesimo. Riguarda proprio questo anche il libro di prossima uscita di Peter Singer, Why Vegan, in cui si afferma che un vegano non può che essere flessibile, perché non esistono le condizioni per il veganesimo, che, in quanto tale, è un ideale regolativo di fatto inverificabile. Anche un vegano che si dice integerrimo in realtà è flessibile e questo basta a capire che il vegetarianesimo è un enorme passo avanti.


A proposito di azioni dimostrative, mi viene in mente la concreta realizzazione, da parte tua, di Walden, un centro culturale che prende il nome dallo scritto più celebre di Thoreau, che a sua volta rimanda a un rapporto particolare con la natura, a una sua riscoperta.

Con Thoreau capita quello che succede anche con una figura molto più nota, ovvero Darwin: entrambi sono autori di un classico che tutti conoscono e che quasi nessuno ha letto. Quando si dice il nome di Thoreau a tutti viene subito in mente l’amante dei boschi, che lì si era rifugiato per sfuggire alle brutture della città. In realtà Thoreau non si scaglia contro la rivoluzione industriale, nei confronti della quale è anzi incuriosito, ma insegna a convivere con la natura in modo corretto, cosciente del potenziale tecnico, tecnologico e creativo tipico dell’essere umano. Insegna a stupirsi del mondo naturale, esattamente come noi oggi ci stupiamo delle continue conquiste del mondo artificiale: siamo pronti a restare esterrefatti di fronte a un robot capace di ballare – o, meglio, di eseguire movimenti precedentemente programmati – sulle note di una canzone, ma non ci stupiamo delle cose incredibili che caratterizzano il mondo naturale, che arrivano quasi a sfiorare il misticismo. 

Walden non ha nulla a che vedere con l’interpretazione maldestra che se ne è data e che rispecchia piuttosto il sogno della borghesia americana di mollare tutto per andare a vivere in campagna e che ha ispirato un film come Into the Wild. L’invito di ritirarsi dal mondo che può leggersi in Walden può anche essere metaforico: il bosco non è necessariamente un luogo fisico, ma spirituale. L’invito è soprattutto a stupirsi nei confronti della natura.

Faccio una piccola precisazione, che credo sia utile visto che ci stiamo occupando del rapporto tra politica e natura. Thoreau faceva parte della corrente filosofica dei Trascendentalisti, che secondo me commettevano un errore nel mitizzare la natura. La loro idea era quella per cui tutto ciò che accade nella natura sia bene. Io, invece, sono d’accordo con Nietzsche, che afferma che in natura non succede nulla né di buono né di cattivo: nella natura capitano cose, che solo successivamente il nostro cervello processa moralmente. La condizione per rispettare la natura non è mitizzarla, ma sapersi stupire di fronte a essa.

In questo senso, secondo me, Walden è un grande testo non voluto di ecologia, una parola che a quel tempo non esisteva neppure, perché non fa altro che dire: «Guardala, la natura!». È un invito molto bello, che soprattutto le scuole dovrebbero accogliere. Trovo assurdo, personalmente, che le scienze naturali siano considerate come se fossero inutili sin dalla tenera età: ai nostri figli si insegnano le capitali degli Stati Uniti d’America – un’informazione che dopo poco si dimentica e che in qualunque momento e in un batter d’occhio può essere recuperata attraverso nuove tecnologie come Siri –, ma non si mostra mai come distinguere dieci tipi diversi di fiori o di animali, non li si accompagna nei boschi a cercare di capire che aspetto ha un certo tipo di pianta piuttosto che un’altra. Ecco, secondo me un libro come Walden ti invita a fare tutto questo, perché ti instilla curiosità. E questa è una delle cose migliori che una lettura ti possa lasciare, secondo me.


Mi sembra corretto, allora, dire che la posizione filosofica che hai assunto nei confronti della natura non si è sviluppata solo in modo teorico, ma ha anche un forte risvolto pratico (basta pensare al lavoro che stai facendo con PostHuman Studio): il vostro pensare si è trasformato in un lavoro concreto di costruzione. Un modo di costruire che, ancora una volta, è strettamente legato al tuo modo di intendere la natura.  

Le azioni cui abbiamo dato vita tradiscono un’esigenza tipica del nostro tempo, che è quella di andare a capire che cosa si nasconde dietro una parola che oggi usiamo tutti, ma di cui spesso ignoriamo il significato e la portata: curatela. Che cosa si intende con questo termine? La curatela dovrebbe essere un modo di rendere pratiche le teorie filosofiche, dando loro una forma. Ciò può avvenire attraverso il design, l’architettura, l’attivismo, l’arte contemporanea… Una cosa, però, è fondamentale: distinguere tra futuro e progresso, definendo il secondo come il primo orientato da valori, che, in qualche modo, sono sempre stati assegnati dalla filosofia (e non dai filosofi).

Ci sono tante cose che un tempo faceva la filosofia e che oggi spettano ad altre discipline, più specializzate e figlie della filosofia. Altre questioni, invece, restano problemi genuinamente filosofici e una di queste è proprio capire quali sono i valori fondamentali con cui sostituire i piani di progetto, cambiando le condizioni di contorno del tempo in cui si sta vivendo. Sono considerazioni che non prescindono dal rapporto tra natura e politica o, quantomeno, tra natura e cultura: negli anni Sessanta era giusto, perché giustificato, essere più attenti all’artificiale, ma oggi non può più essere così. Oggi non possiamo ignorare il conto alla rovescia che ci è stato dato dal punto di vista ambientale: sono fonti autorevoli, quali organizzazioni internazionali, la NASA, informazioni in arrivo dai satelliti, a garantire che si tratta di dati effettivi, perciò abbiamo il dovere morale di tenerli in considerazione, facendo il possibile non solo per non ridurre ulteriormente gli anni che abbiamo, ma per provare ad estenderli. Perché non ne va della sopravvivenza del pianeta, ma della nostra.


Leonardo Caffo, filosofo e curatore. Attualmente è curatore a La Triennale di Milano (delega Public Program) oltre che professore di Estetica della Moda e dei Media e di Fenomenologia delle Arti Contemporanee alla NABA. Insegna inoltre Ontologia del Progetto al Politecnico di Torino ed Eco-Design al Made Program di Siracusa. Collabora al Corriere della Sera dal 2015, scrive regolarmente su Domus e Flash Art ed è Editor at Large di Cartography. Ha condotto e scritto programmi per Radio RAI, curato più di venti mostre e progetti speciali d’arte e design, e pubblicato circa venti libri tra cui A come Animale (Bompiani 2015), La vita di ogni giorno (Einaudi 2016), Fragile umanità (Einaudi 2017), Vegan (Einaudi 2018), Costruire Futuri (Bompiani 2018), Quattro Capanne (Nottetempo 2020), Il cane e il filosofo (Mondadori 2020), Intromettersi (Elèuthera 2020). Ha fondato Walden Milano di cui è direttore artistico ed è parte de Advisory Board del Padiglione Italia della Biennale di Architettura di Venezia. Sta attualmente lavorando per BASE Milano a “BASE Urano”, micro festival sulla diversità con installazioni, talk, performance dedicate alla “stranezza” rimossa dal pensiero ordinario. Il suo prossimo libro in uscita è Essere Giovani (Ponte alle Grazie 2021).