Vai al contenuto

Scuola di videogiochi

Intervista a Kenobit

Molti ritengono che i videogiochi non siano null’altro che passatempi, altri non riescono a fare a meno di ritenerli un vizio pericoloso. I videogiochi, però, sono un mondo complesso, ricco, certamente, di leggerezza e di insidie, ma anche di grandi storie e di occasioni preziose che la scuola non dovrebbe ignorare.


Spesso si ritiene che la narrazione “vera” possa esistere solo su carta. In che modo, invece, questa è nata e si è evoluta nel mondo dei videogiochi? I videogiochi possono essere considerati uno strumento per fare letteratura?

I videogiochi sono un medium, proprio come la carta stampata, la tela o un muro su cui viene dipinto un murales. Sono un mezzo di comunicazione, la cui natura può variare di volta in volta: un semplice svago, una ricerca estetica o una forma narrativa potente tanto quanto un libro o un film.
Libri, film e videogiochi sono tutti e tre strumenti narrativi capaci di raccontare storie. Lo fanno utilizzando meccanismi diversi e incarnando punti di vista differenti, ma tutti e tre possono racchiudere una storia.

Quando parliamo di storie, rispetto al libro e al film, sul videogioco regna qualche pregiudizio, come se il suo contenuto non possa essere all’altezza degli altri strumenti narrativi. Tuttavia, non è così. Intendiamoci, esistono videogiochi che raccontano vicende banalissime (quando, per esempio, un omino armato di spada e pistola parte per sconfiggere i nemici e salvare la vittima o risolvere la situazione). Chi elabora un videogioco, però, può anche immaginare una storia complessa e dai risvolti profondi a cui, come meccanismo proprio dello strumento, aggiunge l’agency della persona che gioca: il fruitore di un videogioco è al contempo spettatore e attore, perché, mentre osserva, vive sulla sua pelle la responsabilità di alcune scelte
Vi faccio un esempio secondo me molto rilevante. Papers, please è un videogioco di Lucas Pope, in cui chi gioca riveste il ruolo di un ufficiale di frontiera che, al confine di un paese fittizio che versa in miseria, deve timbrare i documenti di chi passa. All’inizio del gioco hai la sensazione di dover semplicemente richiedere un particolare documento su cui apporre un timbro rosso e respingere chi non ce l’ha. Nel giro di 20 minuti, però, questo gioco mette davanti a delle scelte morali terribili. Ecco dunque il risvolto profondo della storia, che in questo caso non solo affronta temi complessi come l’immigrazione, ma ti chiede di prendere decisioni che hanno un peso morale sempre maggiore: l’ufficiale che interpretiamo potrebbe farsi corrompere e così pagare le medicine per suo figlio, che altrimenti morirebbe; potrebbe decidere di unirsi a un moto di ribelli perché la giornata di lavoro è intollerabile o sopportare tutto in nome della fedeltà alla burocrazia. Il videogioco, mettendo chi gioca al centro dell’esperienza raccontata, diventa uno strumento narrativo incredibile, che fa riflettere realmente.  

C’è un altro aspetto interessante che riguarda il potere narrativo del videogioco, che emerge chiaramente se pensiamo allo schermo su cui scorre il video in parallelo a un pezzo di carta. C’è un gioco, che sicuramente conoscete, in cui un foglio è fatto girare tra più giocatori che, dopo aver scritto un elemento della frase (soggetto, verbo, complemento oggetto, etc…), lo nascondono piegando il foglio per poi passarlo al vicino. Il risultato finale è ignoto e, molto spesso, esilarante. In questo caso la carta è uno strumento narrativo condiviso, che consente il racconto non passivo di una storia. Ecco, un videogioco può essere uno strumento narrativo molto potente nell’ottica di produrre storie. Da questo punto di vista, Minecraft è un esempio eccezionale, l’equivalente di un’enorme scatola di Lego con cui i bambini possono scrivere e raccontare le loro storie.


A proposito del suo potere narrativo, un videogioco si differenzia da un altro anche in base allo stile che adotta? Un libro e un film adottano uno stile narrativo preciso, quindi immagino avvenga lo stesso per un videogioco. E, se è così, la scelta di uno stile dipende dal target di riferimento e dal livello di profondità del contenuto proposto?

Questa domanda comprende anche i videogiochi in cui la storia è ridotta all’osso, come Tetris. C’è un genere di videogiochi, i walking simulator, in cui il giocatore ha la sensazione di camminare, andando avanti e affrontando esperienze diverse: in questo caso il videogioco coincide con la storia che si sviluppa via via. 
Non voglio anticipare troppo, perché rovinerei la storia per chi volesse provarlo, ma esiste un videogioco, Gone Home, che presenta perfettamente la differenza tra un videogame e un film o un libro. Il gioco racconta di una ragazza andata in Europa per studiare e, tornata negli USA un anno dopo, trova la casa vuota e la sua famiglia scomparsa. Noi non sappiamo niente di lei e, man mano che ci aggiriamo per casa e per il suo mondo, dobbiamo farci un’idea di cosa sia successo: le uniche informazioni di cui entriamo in possesso sono date dal continuo parlare della ragazza, scatenato dall’incontro con gli oggetti e i dettagli che troviamo. Questo significa che la stessa quantità di informazione che un libro o un film potrebbero offrirti, in un videogioco sono raccontate con il ritmo deciso dal giocatore, che è al contempo spettatore, regista e attore di un contesto.

Nel mondo dei videogiochi c’è uno spettro enorme di varietà: giochi che sono tutta narrazione di una storia, giochi fatti solo di azione e giochi che mescolano le due possibilità. La cosa divertente è che questi equilibri possono cambiare anche nell’ambito di uno stesso gioco ed è dunque difficilissimo generalizzare generi e stili.


Quale suggerimento daresti a insegnanti ed educatori che volessero far interagire scuola e video games?

Ci sono tante possibilità. Io, però, cambierei la domanda di partenza. Mi chiederei, più in generale: di che cosa ha bisogno la scuola? I videogiochi sono una cassetta degli attrezzi enorme dalla quale si può pescare di tutto. 
Minecraft, per esempio, è un gioco che presenta dinamiche molto libere, che potrebbero offrire più occasioni educative: per fare un esempio concreto, se fossi un insegnante mi piacerebbe preparare una mappa con Minecraft.
Altri giochi potrebbero essere usati per implementare la fruizione di contenuti didattici, come quelli che si sviluppano su un determinato periodo storico o che addirittura ripercorrono la storia dell’umanità. A volte, un videogioco potrebbe essere funzionale ad abbattere alcune barriere cognitive o emotive.

Partire dalle esigenze della scuola ci consente di trovare elementi preziosi anche in videogiochi non progettati esplicitamente con finalità educativa. Mario o Civilization, per esempio, come altri giochi che esistono da sempre, potrebbero aiutare a sviluppare la capacità di digitare su una tastiera.

Il periodo da cui veniamo e nel quale siamo ancora immersi è quello delle videoconferenze e, nel caso della scuola, della didattica a distanza. Credo che in questo caso il videogioco presenti delle enormi potenzialità, prima tra tutte quella di stabilire un luogo unico e dare un senso al nostro essere radunati in 20 online mentre si ascolta l’insegnante. Con la DAD siamo tutti in luogo diverso e manca l’elemento di aggregazione, che, anche se virtuale, un videogioco riesce a ricreare in modo efficace. Io l’ho sperimentato quando, non potendo più giocare ai giochi da tavolo con i miei amici, ho provato Top Simulator, un simulatore di giochi da tavolo che crea un mondo 3D e ti permette di manipolare le pedine.

A essere onesti, c’è un aspetto che ostacola l’utilizzo dei videogiochi a scuola. L’abbiamo visto con la DAD, che ha ulteriormente sottolineato le disuguaglianze tecnologiche ed economiche tra gli studenti. Rispetto alla carta, i videogiochi richiedono che ciascun fruitore possa contare su uno schermo, che non tutti hanno a disposizione. Immaginando, però, un futuro in cui le bambine e i bambini avranno più facilmente accesso a un computer, mi piace pensare al videogioco come una risorsa tanto in qualità di mezzo quanto nel suo poter offrire uno spazio virtuale efficace.


Twitch è una piattaforma usata moltissimo da ragazzi molto giovani. In che cosa consiste?

Potremmo definire Twitch come una sorta di televisione amatoriale: con un computer, una connessione, una webcam e un microfono, scegli un contenuto da trasmettere e chiunque nel mondo può vederti. Se il contenuto è di qualità o comunque interessante, si può arrivare ad avere dalle 50 alle 300 mila persone che seguono la diretta trasmessa. È come YouTube, ma in tempo reale.

È proprio l’essere in diretta e non registrato ad associare Twitch al mondo dei videogiochi. Anzi, i primi contenuti trasmessi su Twitch erano proprio giocatori di videogiochi che giocavano in diretta le loro partite. Adesso, invece, c’è di tutto: si può parlare di musica, di politica o portare i propri visitatori con sé in un tour attraverso una città.

Twitch è una piattaforma di streaming (non è l’unica, ma la più nota e diffusa), che trasmette contenuti di varia natura. E anche questo, essenzialmente, è un mezzo, che poi può trasformarsi in tantissime cose: una tragica perdita di tempo, dai tratti a volte anche nocivi, un luogo di svago, ma anche di informazione e formazione (come il canale Yeah under Schools says under Twitch, gestito da ragazze e ragazzi che vivono in ambito accademico e fanno divulgazione scientifica e artistica).     

Twitch è una realtà particolare di Internet, con i suoi meccanismi e la sua comunità di riferimento. All’inizio dicevo che per quanto ricordi YouTube o addirittura la televisione, ma Twitch si differenzia profondamente da questi due mondi: i suoi utenti, godendo della diretta e della possibilità di partecipare allo streaming, hanno la sensazione di condividere un’esperienza, di interagire e intervenire sul contenuto proposto; i commenti e le domande rilasciate non vanno perse come davanti allo schermo della TV. Twitch è una piattaforma di grande simultaneità.


Da quanto dici mi sembra di capire che Twitch possa offrire possibilità e occasioni. In che modo potrebbe intrecciarsi con la scuola?

Innanzitutto credo che sia necessario educare su queste piattaforme: spiegare cosa sono, illustrarne e indagarne le potenzialità (e le criticità). Credo sia estremamente importante, perché, come altre piattaforme, anche Twitch pone il problema del sentirsi più o meno valido a seconda del numero di follower o di spettatori che il tuo contenuto e la tua proposta ottiene. Se sei un adulto, è qualcosa che puoi gestire, ma se sei giovane, un ragazzo o una ragazza in formazione e, come tale, estremamente sensibile al giudizio e all’approvazione da parte dell’altro, può rivelarsi un meccanismo molto spinoso: hai la sensazione che il tuo valore sia legato a un numero, peraltro estremamente effimero. Tanto Instagram quanto Twitch, piattaforme molto usate dai giovanissimi, possono rivelarsi campi di battaglia estremamente competitivi in cui si fa di tutto per emergere.

Un annetto fa mi è capitato di essere invitato in una scuola media proprio per parlare di Twitch ai ragazzi. Dai loro interventi è emerso che molti di loro vogliono avere un proprio canale su cui trasmettere i loro contenuti: desiderano avere un output creativo, e questo è estremamente positivo. Proprio per questo, però, è importante metterli in guardia su quelli che sono i pericoli di una piattaforma simile, tanto per il suo funzionamento quanto per i contenuti non sempre edificanti che vi si possono trovare. È necessario, secondo me, dialogare e cercare di capire la volontà di esprimersi e di emergere da parte di questa nuova generazione, rendendola consapevole dei meccanismi velenosi in cui potrebbero trovarsi immersi, come l’eterna ricerca di numeri favorevoli.
Di per sé, non è così diverso da quando inizi a suonare la chitarra, entri in una band in cui ti diverti moltissimo e improvvisamente vieni risucchiato dal desiderio di sfondare: è importante, in ogni caso, valorizzare un’esperienza non sulla base di quanti ti approvano, ma pensando a quanto ti piace. Il nostro valore non dipende dai numeri, che sono un po’ una lotteria: conta solo la soddisfazione che proviamo nel fare qualcosa che amiamo.

Fabio Bortolotti, in arte Kenobit, vive e respira videogiochi. Suona il suo Game Boy in giro per il mondo, con concerti in Africa, Russia, Giappone, Australia, America e in tutta Europa, traduce videogiochi, ha un passato sulle grandi riviste cartacee (Giochi Per il Mio Computer, Nintendo la Rivista Ufficiale, Xbox Magazine Ufficiale, The Games Machine, PSM) e un presente come intrattenitore su Twitch, dove insieme ad Andrea “Bisboch” Babich e Antonio Bellotta dirige Kenobisboch, un canale dedicato al retrogaming e alla diffusione della cultura del videogioco.