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Un big bang zitto zitto

Articolo a cura di Danilo Faravelli

Quando sentiamo parlare di big bang, ovvero dell’esplosione che diede origine all’universo, la nostra ridicola immaginazione si avvita su se stessa in preda a una piacevole vertigine e subito comincia a perdersi nell’idea di un botto cosmico di potenza incommensurabile e di propagazione illimitata, senz’altro foriero di completo annientamento a danno delle facoltà uditive di chi fosse lì ad ascoltare. In questo nostro puerile modo di reagire, incapaci come siamo di sottrarci alle abitudini che regolano le nostre relazioni con la realtà che ci circonda, non teniamo conto del fatto che, in assenza di membrane timpaniche atte a vibrare in simpatia con l’aria scossa dal big bang (aria peraltro a sua volta assente), quella spaventosa esplosione cosmogonica non poté di fatto produrre suono alcuno. Infatti, aria e orecchio sarebbero stati generati essi stessi dalle conseguenze biochimiche di quel gran botto, il cui sconvolgimento – come ben sappiamo – è ancora lungi dall’aver esaurito la propria energia.

E possiamo forse pretendere che, trovandosi a svolgere il ruolo di sottoprodotto e comunque di parte integrante di un universo in espansione, i nostri sensi, in particolare quello dell’udito, comincino ora, di punto in bianco, ad accorgersi del proprio esserne espressione infinitesimale; ora, mentre vi sono immersi da milioni di anni?

Tutto questo valga per sottolineare fino a che punto aria, suono e udito rappresentino i termini inscindibili di un interessantissimo fenomeno di reciproca limitazione: laddove non c’è aria non si può dare fenomeno sonoro; laddove vi sia aria vibrante, ma non timpani pronti a farsi contagiare dalla sua elasticità, non vi sarà sensazione uditiva.

Passiamo ora ai livelli argomentativi più riposanti della concretezza ordinaria. Scendiamo ai livelli della realtà in cui il nostro orecchio, collegato a un cervello incline all’esperienza estetica, incontra q…