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Una storia tira l’altra

Intervista a Francesco Costa

L’esplorazione di un tema particolare come “Cosa c’è sotto?” ci ha portato a incontrare persone e professioni molto diverse tra loro. Siamo passati da una ricercatrice di dati a un gruppo di archeologi a chi, attraverso la forma del manifesto, lascia emergere in superficie ciò che sta sul fondo di ciascuno di noi. Chi svolge il mestiere del giornalista vanta sicuramente qualcosa in comune con le figure con cui abbiamo finora discusso: come quelle, anche chi offre informazioni sotto forma di notizia non può perdere di vista la storia che vive sotterranea.


Il tuo lavoro di giornalista ti porta a “guardare che cosa c’è sotto il tappeto”: posto di fronte al dato visibile, lo prendi e ne ricostruisci la storia sommersa. Ci sono strumenti particolari che hai affinato nel corso del tempo per la ricostruzione di questo sommerso?

Sicuramente gli stessi dati sono un ottimo strumento, soprattutto perché non ci restituiscono “la Risposta”: chiedono di essere interpretati, contestualizzati. Dal momento che tutti noi non possiamo che vedere solo un pezzetto di quello che ci circonda, spesso i dati ci aiutano a confermare o smentire le nostre impressioni: ci indicano la giusta direzione verso cui rivolgere lo sguardo e indagare.

Un altro strumento è antichissimo ed è quello su cui si basa il giornalismo: parlare con le persone. Quando indaghiamo un certo fenomeno, è fondamentale cercare non solo chi ne è esperto, ma anche chi, più semplicemente, ne è toccato in qualche misura. È importante farsi raccontare da queste persone la loro esperienza, la loro vita, il loro rapporto con quel determinato fenomeno. L’avvento di Internet ha reso più semplice il lavoro di ricerca: stando seduto alla tua scrivania, puoi trovare una storia interessante avvenuta in un piccolo e lontano paesino. Rispetto al tempo passato, si trovano più rapidamente diversi indizi, che poi, ovviamente, possono trasformarsi in telefonate, incontri, viaggi.
C’è ultimo strumento che vorrei menzionare. Uno dei metodi migliori per ricostruire i legami di causa-effetto, ovvero per capire perché succedono le cose – capire che cosa c’è sotto – è studiare. Mi rendo conto che dirlo sia banale, ma ci tengo ugualmente. A volte ci accorgiamo di determinati fenomeni solo nel momento in cui esplodono, ma quando poi andiamo a studiare gli archivi dei giornali e le banche dati notiamo che un certo episodio si è verificato perché prima ne erano accaduti molti altri che ha reso quell’ultimo avvenimento possibile. Studiare il passato ci permette di ricostruire i fili e unire i vari puntini.


C’è un esercizio o una piccola attività che fai fare ai tuoi studenti che potrebbe essere proposta anche alle bambine e ai bambini per allenarsi e abituarsi a guardare cosa c’è oltre l’immediato?

Quando si verifica un avvenimento che riceve grande visibilità, mi piace molto vedere il racconto che ne fanno diversi giornali e osservare come, nel susseguirsi dei giorni, evolva la sua trattazione anche sullo stesso giornale: se vengono aggiunti degli elementi, se compaiono rettifiche o correzioni, se sono inserite precisazioni.  
Prendiamo un fatto di cronaca. Di fronte a un delitto, il racconto che ne darà notizia per la prima volta riporterà alcune informazioni, il secondo giorno ne saranno aggiunte altre e il terzo giorno, magari, si scoprirà che ciò che si reputava vero al momento dell’avvenimento non corrisponde a come in effetti sono andate le cose. 
Pensiamo, per esempio, a un episodio di cui si è parlato tantissimo: i presunti abusi di Bibiano. In questo caso, prendere i giornali dei dieci giorni successivi all’esplosione del caso è un ottimo esercizio: come si sono evolute le nostre informazioni in quel lasso di tempo? Che cosa è cambiato nel racconto sui giornali? Queste domande ci aiutano anche a comprendere quali sono i meccanismi per cui certe informazioni arrivano sui giornali, come, se accade, avvengono le correzioni, come cambiano i toni e come vengono progressivamente dati i titoli. Credo sia un esercizio molto istruttivo.


Ascoltandoti e leggendoti pare quasi che, più che di un giornalista, si sia al cospetto di un cantastorie. Come fai a fare in modo che la storia, cioè ciò che c’è sotto – e dentro – la forma del racconto, non scompaia durante la narrazione?

Credo che oggi chi svolge il mestiere del giornalista debba porsi il problema di quale sia il modo più efficace possibile per divulgare i risultati del proprio lavoro di ricerca. Il senso del mio lavoro non è la narrazione, ma l’indagine che, però, se deve essere utile alle persone, deve trovare la forma giusta per interessarle.   
Le storie, secondo me, sono un mezzo fortissimo, perché, in quanto esseri umani, siamo esseri sociali. Per noi è molto più facile comprendere l’impatto, per esempio, del problema dell’occupazione femminile in Italia se, anziché limitarci a leggere i dati, ascoltiamo le storie di alcune persone nelle quali possiamo riconoscerci o che comunque umanizzano il singolo dato. Le storie delle persone possono rivelarsi un mezzo per rendere più chiaro e comprensibile il macrofenomeno di cui sono un esempio
Altrettanto importante, però, è saper padroneggiare quante più tecniche possibile. Oggi, non siamo più nelle condizioni di dire “mi piace molto scrivere, quindi vorrei fare il giornalista”: la scrittura non è che uno dei metodi per raccontare le storie e non sempre si rivela il più adeguato. Ci sono episodi che è più efficace raccontare attraverso un video, altri con un podcast, altri ancora sui social media. Padroneggiare più strumenti consente di trovare il modo migliore per raccontare ogni storia e far sì che sia il contenuto a scegliere il contenitore.


Ti faccio un’ultima domanda. Ci sono storie a cui da bambino eri particolarmente affezionato?

Mi piacevano molto le storie legate alle professioni e ai mestieri delle persone. Io, infatti, non ho capito subito di voler fare il giornalista: prima, ho voluto fare un sacco di altri mestieri, dallo scienziato al muratore, per cui, col tempo, mi rendevo conto di non provare un interesse così grande o di non essere particolarmente portato. 
Mi affascinava capire perché i diversi mestieri fossero utili e che cosa facevano effettivamente le persone che svolgevano una data professione. A questo proposito potrei raccontare un aneddoto. Quando ero piccolo, a casa non avevamo il gas metano. La cucina funzionava grazie alla bombola, che, però, a un certo punto finiva, scatenando il panico: senza gas, non era possibile cucinare e, di conseguenza, mangiare. Quando accadeva, si trattava di una reale e gravissima emergenza. Ed ecco, allora, che mia madre faceva puntualmente una telefonata, che, in poco tempo, portava da noi quello che ai miei occhi era un autentico supereroe: il Signore delle Bombole. Era un uomo molto corpulento, che arrivava portando sulle spalle la nuova bombola del gas e immancabilmente riusciva a salvare il pranzo. Per un bel po’ ricordo che mi sarebbe piaciuto svolgere questo lavoro – ovvero diventare un supereroe a tutti gli effetti. In seguito, ho cominciato a domandarmi quale fosse il ruolo di questa professione nella mia vita e, più in generale, quale fosse il posto delle diverse persone nella società di cui facciamo parte: è affascinante scoprire in che modo tutti noi, attraverso il ruolo che svolgiamo, siamo toccati gli uni dagli altri.

Francesco Costa (1984) è nato a Catania, vive a Milano ed è giornalista e vicedirettore del giornale online Il Post. Esperto di politica statunitense e più volte inviato sul campo, dal 2015 cura il progetto Da Costa a Costa, una newsletter e un podcast sugli Stati Uniti con oltre cinquantamila lettori e ascoltatori, per i quali ha vinto nel 2016 il Premio internazionale Spotorno nuovo giornalismo, nel 2018 il premio per il miglior podcast italiano alla Festa della Rete e nel 2020 il premio Amerigo. Ha collaborato alla realizzazione dei documentari La Casa Bianca per Rai 3 e alla copertura delle elezioni presidenziali statunitensi del 2020 su Sky TG24. Conduce periodicamente la rassegna stampa di Rai Radio 3, “Prima Pagina”. Ha insegnato giornalismo allo Iulm di Milano; dal 2018 è responsabile del corso alla Scuola Holden di Torino. Il suo primo libro si intitola “Questa è l’America”, uscito nel 2020 per Mondadori.